A mio nonno Arnaldo
Sisto V, al secolo Felice Piergentili Peretti, fu il 227° papa. Il suo pontificato durò solo cinque anni, dal 1585 al 1590, un tempo relativamente breve ma sufficiente per trasformare Roma e la Chiesa, perché papa Sisto lasciò un segno indelebile sulla capitale del cattolicesimo, un tratto che ancora oggi, a distanza di secoli, è facilmente leggibile.
Questo è il racconto di Sisto V, il papa “tosto” come lo definì il Belli.
Da Grottammare a Roma, la lunga via verso il papato
Felice Piergentili Peretti (anche se alla nascita fu registrato come Felice Piergentili di Peretto da Montalto) nasce il 13 dicembre 1521 a Grottammare, un piccolo borgo di pescatori affacciato sull’Adriatico.
Fin da piccolo il futuro pontefice dimostra un’intelligenza spiccata anche se non può frequentare la scuola, visto che il padre, che si era rifugiato nel borgo marchigiano per sfuggire alle angherie del duca di Urbino, non può permettersi neppure i cinque baiocchi mensilmente richiesti dal maestro per seguire le lezioni.
Di quel bambino che aiuta il padre nel lavoro di giardiniere si accorge fra Salvatore, uno zio di Felice che è guardiano del convento di San Francesco della Fratte a Montalto, non distante da Grottammare.
Felice ha nove anni e segue con fiducia lo zio, applicandosi nello studio e nella preghiera, tanto che appena compie undici anni prende i voti, diventando frate minore dell’ordine francescano.
Ma le mura del convento di Montalto sono troppo anguste per il giovane Felice che è intelligente ma anche molto ambizioso. A Ferrara, prima, e a Bologna, poi, prosegue gli studi, eccellendo, in particolare, nella fine arte della dialettica che utilizza appieno per risolvere intricate questioni teologiche.
L’anno della svolta per il futuro Sisto V coincide con il 1552. Felice Peretti è a Roma per predicare il quaresimale. Ecco come lui stesso ricorda quell’avvenimento:
«L’anno 1552, predicai in Roma in S.S. Apostoli e trè illustrissimi Cardinali me intrattennero in Roma, e lessi tutto l’anno trè dì della settimana, la Pistola à Romani di S. Paolo.»
Quei tre illustrissimi cardinali sono il cardinal Carpi, il cardinal Carafa, il futuro Paolo IV e, soprattutto, il cardinal Ghislieri che diventerà papa nel 1566 con il nome di Pio V, tre personalità differenti ma che incideranno e non poco sulla carriera ecclesiastica del giovane Felice.
Fra Felice a Roma è uno dei predicatori più seguiti. Piace per la sua chiarezza, per l’incisività, per l’eloquio mai pomposo ma sempre diretto e scorrevole, capace di affascinare tutti, analfabeti o intellettuali ma, soprattutto, piace per quel «fuoco sacro che fiammeggia nella parola.»
Tra coloro che seguono fra Felice ci sono personalità del calibro di Filippo Neri e Ignazio da Loyola, oltre a quel Ghislieri che non si perde neppure una delle prediche del frate marchigiano.
Quando il cardinal Carafa viene eletto papa si ricorda dell’umile francescano e lo nomina inquisitore a Verona, ma è nel pontificato di Pio V che Felice Peretti raccoglie i successi maggiori.
Viene prima nominato vicario generale dei Conventuali, poi vescovo di Sant’Agata dei Goti e, infine, il 17 maggio 1570, viene creato sempre da Pio V, cardinale, prendendo possesso della chiesa di San Girolamo degli Schiavoni.
Ma l’ascesa di Felice Peretti subisce un’improvvisa e inaspettata fermata. Il 1° maggio 1572 muore Pio V, il grande mecenate di fra Felice ma le disgrazie sono appena cominciate.
Il 13 maggio di quello stesso anno è eletto papa, in un conclave brevissimo e fortemente influenzato dall’imperatore di Spagna, Filippo II, il cardinale Ugo Boncompagni che assume il nome di Gregorio XIII.
Per Felice Peretti l’elezione del cardinale bolognese è la peggiore notizia che possa ricevere. Il Boncompagni, infatti, è un suo acerrimo avversario. L’inimicizia origina alcuni anni prima quando i due, con altri ecclesiastici, prendono parte in terra spagnola al processo all’arcivescovo di Toledo, Caranca, accusato di eresia.
Già in quella circostanza emergono le prime divergenze che si acuiscono nel corso degli anni successivi. Tra i due, eufemisticamente, non corre buon sangue; per questo, saggiamente, il cardinal Montalto (così è conosciuto nella curia fra Felice) nei tredici anni di pontificato di Gregorio XIII, praticamente si eclissa, chiudendosi nella villa sull’Esquilino, dove trascorre le lunghe giornate a scrivere una corposa opera su Sant’Ambrogio.
Ma quell’ostracismo che si impone non è, tuttavia, sufficiente, visto che il futuro Sisto V subisce ancora gli strali del pontefice che, con una decisione che ha dell’incredibile, gli toglie il piatto cardinalizio, ovvero l’appannaggio di cento scudi mensili di cui gode dal giorno della nomina cardinalizia.
Si tratta di un duro colpo, ma non tale da abbattere il frate marchigiano. Ecco come Augusto Galassi nel suo Sisto V un grande della storia sintetizza la replica del cardinale all’ennesimo affronto di Gregorio XIII:
«E come reagisce il Montalto? Non reagisce. Pensa, studia e si prepara. Pensa a come controllarsi; studia arte e scienze delle costruzioni sotto la guida dell’architetto Fontana e si prepara, si prepara a divenire Papa. Attenderà dodici anni.»
Il conclave del 1585, l’elezione di papa Sisto V
Il 21 aprile 1585, a undici giorni dalla morte di Gregorio XIII, i cardinali sono nella capitale della cattolicità per eleggere il 226° successore di Pietro.
Sulla carta il conclave che si apre in quella domenica di Pasqua, sembra essere una battaglia a due. Da una parte il favorito numero uno, il cardinale Alessandro Farnese, dall’altra, Ferdinando de’ Medici; uno scontro dinastico che tiene con il fiato sospeso i romani e non solo.
Il Farnese, stando alle voci che leste si diffondono in città, è il favorito. Appartiene a una delle famiglie più importanti di Roma, è apprezzato politicamente e nella Curia occupa un posto di rilievo, essendo il decano del Sacro Collegio; ma, soprattutto, è amato dal popolo.
Il Medici, tuttavia, è un avversario di tutto rispetto, tanto che gli allibratori quotano bene il suo nome e tra le vie di Roma le puntate su quel cardinale, anche se ufficialmente vietate, non sono poche.
Chi entra papa in un conclave, si sa, molto spesso ne esce cardinale e anche l’elezione dell’aprile del 1585 non sfugge a questa regola non scritta.
La forza di quei due autorevoli candidati spacca fin da subito il conclave, tanto che al primo scrutinio il cardinale che ottiene più voti, ben 13, è l’ottuagenario Giovanni Girolamo Albani, un porporato dalla specchiata reputazione e dall’importante discendenza.
Ma non può essere lui il futuro papa, anche se l’età avanzata garantirebbe un pontificato di transizione, rimandando, così, la scelta del Farnese o del Medici a momenti migliori.
Nelle pieghe di uno stallo che si prefigura lungo e complesso, si inserisce il nome del cardinale Guglielmo Sirleto. Si tratta di una proposta valida che piace a molti, Medici compresi, ma che è avversata dai D’Este e, soprattutto, dai Farnese. Per questo, così come nasce quella candidatura si affievolisce nel tempo di un amen.
Le ore passano, gli incontri si infittiscono, il clima diventa incandescente e le voci, inevitabilmente, valicano l’apparente segretezza del conclave per divenire di dominio pubblico.
Nella notte del 22 aprile, quando la città dorme, si sparge la notizia che è stato eletto Alessandro Farnese. I romani lasciano i propri letti per riversarsi in strada, tutti diretti sotto le finestre di palazzo Farnese per festeggiare il nuovo papa.
Ma si tratta di una boutade e la delusione nel popolo è indescrivibile. I cardinali, così, decidono di fare in fretta.
Si fanno altri nomi, come quello di Giacomo Savelli, per molti il candidato perfetto ma non per i Medici, il cui ferale diniego affossa la designazione.
I vari nomi proposti nel prosieguo del conclave cadono come petali di una rosa sfiorita, tranne uno, quello del cardinal Montalto.
Il nome del minoritario Felice Peretti, che dal suo scranno rimane impassibile, viene proposto da alcuni porporati, tra cui l’autorevole Riario, patriarca di Alessandria; ma sul frate marchigiano pesa come un macigno l’opposizione dei cardinali nominati da Gregorio XIII, non solo numerosi ma anche decisivi.
Ma, proprio quando anche la candidatura di fra Felice sembra tramontare, arriva la svolta. I cardinali Altemps e Medici sono d’accordo a votare il Peretti e quel loro assenso si porta dietro, inevitabilmente, buona parte del collegio cardinalizio.
I giochi, oramai, con buona pace di Alessandro Farnese, sono fatti.
Mercoledì 24 aprile 1585, alle ore 15 in punto, il cardinal Montalto è eletto per acclamazione papa, assicurando al papato, come ha scritto Giancarlo Zizola, nel suo Il Conclave storia e segreti, «una delle personalità più significative della sua storia.»
La rivoluzione in Curia e la lotta al brigantaggio di papa Sisto V
Tra le tante incombenze che gravano sul neo papa che sceglie il nome di Sisto, c’è, senza dubbio, quella di rimpolpare le disastrate casse vaticane, un’eredità che promana dalla dissestata politica finanziaria intrapresa dal predecessore Gregorio XIII.
Nel giro di soli tre anni Sisto V raccoglie tre milioni di scudi d’oro e un milione e mezzo in argento che chiude al sicuro dentro Castel Sant’Angelo, da secoli il luogo più inaccessibile di Roma.
Si tratta di una somma cospicua che il pontefice ricava attraverso rilevanti tagli alle spese alla macchina statale in tutti i suoi aspetti (la cura dimagrante riguarda anche l’appannaggio dei cardinali che viene ridotto) ma anche dall’aumento delle entrate, ottenuto, in particolare, con l’aumento dei prezzi d’acquisto di molte ambite cariche, come nel caso del titolo di Camerlengo per ottenere il quale bisognerà pagare ben cinquantamila scudi.
Di pari passo alla cura finanziaria Sisto V porta avanti, fin da subito, la riforma della Curia, improntata su un maggiore centralismo rispetto alla crescente autonomia che da diversi anni impera.
Nello specifico istituisce quindici congregazioni cardinalizie che assorbono le decine di uffici in precedenza create. Nove di queste coadiuvano il papa nel governo della Chiesa; alle restanti, invece, spettano compiti, sempre in coabitazione con il romano pontefice, prettamente politici, riguardanti, perlopiù, l’amministrazione statale.
Ma l’aspetto più rilevante delle riforme promosse da Sisto V è la decisione di limitare considerevolmente il potere dei cardinali, ottenuto attraverso il ridimensionamento del collegio cardinalizio, la cui autonomia viene fortemente diminuita, tanto che lo storico Jedin osserverà come da quel momento in poi, nessun papa avrebbe più tremato di fronte all’opposizione dei cardinali.
A chiosa di queste riforme vi è anche la Postquam verus, del 3 dicembre 1586, con la quale Sisto V fissa il numero dei cardinali a 70, un numero, dal forte valore simbolico (si ricollega al numero degli anziani del popolo di Israele) modificato solo nel secolo scorso, con le riforme operate da Pio X e da Paolo VI.
A preoccupare papa Sisto non è solo il potere dei cardinali o la struttura della Curia ma anche lo stato in cui versa Roma, minacciata da un fenomeno delinquenziale in costante ascesa.
La Roma che eredita dall’esitante Gregorio XIII è una città sempre più insicura, in cui le strade, come scrive Casimiro Tempesti nella sua settecentesca biografia sul papa di Grottammare, sono «diventate un continuo feroce spettacolo di rapine, di omicidi, di stupri e di tante scelleratezze», una realtà che il pontefice conosce bene, visto che il nipote Francesco era stato assassinato anni prima per mano di Paolo Giordano Orsini, senza che la giustizia avesse fatto nulla.
Alla delinquenza comune e al brigantaggio, una piaga che interessa tutto il territorio pontificio, Sisto V risponde con durezza, ricorrendo, spesso, alle condanne a morte, soluzioni estreme ma dal forte impatto sociale, il cui numero, nel quinquennio sistino, cresce notevolmente, tanto che un cronista dell’epoca così scrive: «sono esposte più teste di banditi a Castel Sant’Angelo che cocomeri al mercato.»
La rivoluzione urbanistica di papa Sisto V, tra nuove strade e antichi obelischi
Ma il nome del pontefice di Grottammare non si lega solo al ripristino dell’ordine pubblico e all’importante riforma della Curia ma anche alla rinascita della città che, durante il suo pontificato, torna a risplendere con un fervore architettonico che mancava da anni.
Si aprono nuove e grandi strade che collegano punti strategici della città; dal Laterano al Colosseo; da Porta Pia al Quirinale; da Porta Salaria alla strada Pia; da Trinità dei Monti (il cui terreno viene livellato in preparazione di una futura scalinata, realizzata, però, molto tempo dopo) alla basilica di Santa Maria Maggiore.
Proprio quest’ultimo asse, compiuto attraverso la strada Felice, così chiamata in suo onore, rappresenta il cuore pulsante del riassetto stradale voluto da Sisto V, un’arteria che ancora oggi, seppur frazionata in diverse vie (via Sistina, via Quattro Fontane, via Agostino De Pretis) mantiene la sua concezione originaria.
Ma il papa provvede anche alla costruzione di un nuovo acquedotto, l’Acquedotto Felice, il primo costruito dai tempi degli antichi romani che porta acqua a una Roma sempre più assetata, a far restaurare il Palazzo del Laterano e la Scala Santa o, anche, a far ampliare il palazzo del Quirinale, ormai individuato come la definitiva sede dei papi in Roma.
Il nome di Sisto V, però, almeno per quanto concerne l’aspetto urbanistico, è legato agli obelischi, a quei giganti in pietra che dormono da secoli nelle viscere della città e che il pontefice marchigiano fa rinnalzare in vari punti di Roma, esempi indelebili della grandezza dell’Urbe.
La decisione di recuperare da un passato lontano quei colossi risponde, tuttavia, a un preciso intento, come perfettamente sintetizzato da Augusto Galassi nel già citato Sisto V un grande della storia:
Ben quattro sono gli obelischi che il papa ricolloca in altrettanti punti strategici della città come l’Esquilino, piazza San Giovanni in Laterano, Piazza del Popolo e, soprattutto, piazza San Pietro, il cui innalzamento impegna fino allo spasmo l’architetto di fiducia di papa Sisto.
Domenico Fontana, infatti, compie un vero e proprio miracolo ingegneristico, riportando ai suoi fasti, davanti alla basilica petrina, l’obelisco che, secoli prima, Caligola aveva fatto collocare al centro di un circo da molti; un’impresa accarezzata in passato da molti architetti ma anche rapidamente abbandonata, per le evidenti difficoltà operative, dettate non solo dalla mole del monolite egiziano ma anche dalle caratteristiche del terreno su cui avrebbe dovuto essere collocato.
In questo progetto di santificazione delle “gentili profanità”, come definite da un cronista dell’epoca, si inseriscono anche le opere di restauro della Colonna Traiana e di quella Aureliana, sulle cui sommità, in ossequio al principio di utilizzare il passato pagano per far risplendere il presente cristiano, Sisto V fa porre le statue di San Pietro e di San Paolo.
Per fortuna non tutte le idee del papa e di Domenico Fontana trovano applicazione; come nel caso del discutibilissimo progetto riguardante il Colosseo che, nell’ottica del pontefice e del suo fidatissimo architetto, si sarebbe trasformato in una moderna filanda, con tanto di alloggi per gli operai.
Sisto V muore il 27 agosto del 1590, stremato dalla malaria che lo attanaglia da mesi e che non gli permette di vedere ultimata l’opera a cui teneva di più: il completamento della cupola di san Pietro, per la quale si era speso tantissimo, implementando non solo il numero degli operai impegnati ma anche i turni di lavoro.
La sera prima della sua morte papa Sisto si affaccia per l’ultima volta dalla finestra della sua stanza in San Pietro, proprio per vedere la cupola michelangiolesca che tanto avrebbe voluto veder terminata.
Sisto V, sepolto nella basilica di Santa Maria Maggiore, nella cappella del Presepe, passa alla storia con tanti epiteti, ma uno su tutti è quello più ricordato: il papa castigamatti, un appellativo che viene coniato dal popolo romano, a ricordo dell’intransigenza del pontefice nel reprimere i reati.
Su Sisto V il papa urbanista, il riformatore della Curia, l’uomo burbero, dai modi spicci, è stato scritto molto ma forse la migliore sintesi fu quella operata in forma poetica, da uno dei cantori più celebri di Roma e della romanità, quel Giuseppe Gioacchino Belli che, in un celebre sonetto, dall’icastico titolo papa Sisto, eternò per sempre la fama del pontefice marchigiano :
Fra ttutti quelli c’hanno avuto er posto
de vicarj de Ddio, nun z’è mmai visto
un papa rugantino, un papa tosto,
un papa matto, uguale a Ppapa Sisto.
E nun zolo è dda dí cche ddassi er pisto
a cchiunqu’omo che jj’annava accosto,
ma nnu la perdonò nneppur’a Ccristo,
e nnemmanco lo roppe d’anniscosto.
Aringrazziam’Iddio c’adesso er guasto
nun pò ssuccede ppiù cche vvienghi un fusto
d’arimette la Cchiesa in quel’incrasto.
Perché nun ce pò èsse tanto presto
un antro papa che jje pijji er gusto
de méttese pe nnome Sisto Sesto.