Il 23 maggio 1992 sull’autostrada fra Capaci e Palermo, in uno degli attentati più drammatici di sempre, perdono la vita Giovanni Falcone, tre uomini della sua scorta e sua moglie, il magistrato Francesca Morvillo.
Questo è la storia di Francesca Morvillo e di quel maledetto 23 maggio 1992.
Il giudice Francesca Morvillo
Capaci, sabato 23 maggio 1992, ore 17.58. Un’esplosione fortissima squarcia il silenzio di un tranquillo pomeriggio siciliano. La terra trema per pochi, infiniti istanti ma non si tratta di un terremoto, anche se i sismografi dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Erice letteralmente impazziscono.
A farli oscillare è, al contrario, la potenza deflagrante di centinaia di chili di tritolo, sufficienti ad aprire sul tratto di autostrada che collega Capaci a Palermo, un cratere di oltre 14 metri di diametro e ben 3 di profondità. L’immagine che gli occhi dei sopravvissuti fotografano per sempre non è minimamente descrivibile, tanto appare assurda, tanto risulta impossibile.
Da una Fiat Croma bianca, a cui l’esplosione ha strappato la parte anteriore neppure fosse la fragile pagina di un libro, arrivano tenui sibili, sommesse richieste d’aiuto. In quel groviglio di lamiere, tre persone, in quel pomeriggio che teme l’arrivo della notte, lottano tra la vita e la morte; sono due uomini e una donna, quest’ultima si chiama Francesca Morvillo.
Francesca Laura Morvillo è la moglie di Giovanni Falcone, l’obiettivo di quell’immane attentato, magistrato come suo marito che ha sposato sei anni prima, nel maggio 1986.
Francesca nasce a Palermo, il 14 dicembre 1945. La passione per la magistratura germoglia presto in lei che, fin da bambina, respira aria di giustizia; il padre Guido è un giudice molto apprezzato, tanto da diventare persino Sostituto Procuratore a Palermo.
Studentessa modello, Francesca dopo il diploma si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo, laureandosi a soli 22 anni con una tesi dal titolo “Stato di diritto e misure di sicurezza” (relatore il professor Giovanni Musotto), conseguendo il massimo dei voti e la lode accademica. Il passaggio dalle aule universitarie a quelle di giustizia è inevitabile e, soprattutto, breve.
Nel 1968 vince il concorso in magistratura, da una manciata di anni aperto anche alle donne, e poco dopo ottiene il suo primo incarico nella sua Sicilia, ad Agrigento.
Poi arriva il trasferimento a Palermo, dove ricopre la carica prima di Sostituto della Repubblica presso il Tribunale dei Minori e poi, sempre nel capoluogo siciliano, di Consigliere della Corte di Appello.
Una carriera segnata da costanti successi, da un impegno per gli ultimi, ma anche da un immenso amore per l’insegnamento che la porta a ricoprire la cattedra di Legislativa del minore nella Scuola di Specializzazione in Pediatria, presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’università di Palermo.
L’ultimo tassello della sua carriera, prima che il tritolo mafioso la uccida, la vede componente della Commissione per gli esami per il concorso in magistratura.
L’incontro tra Francesca Morvillo e Giovanni Falcone
Francesca Morvillo e Giovanni Falcone si incontrano per caso, come spesso succede agli amori più belli, quelli destinati a durare. Si conoscono nel corso di una gita a Trapani, alla quale lei partecipa più che altro per compiacere il marito anche se i profili aspri delle Egadi che si intravedono dalla costa trapanese sono un sacrificio accettabile, specie per chi è fresca di nozze.
È il 1979 Francesca ha 34 anni, da poco è coniugata con Giuseppe, un amore nato tempo prima con la timidezza e l’impaccio della gioventù e non sa che, di lì a poco, conoscerà l’uomo della sua vita a cui rimarrà legata fino a quel terribile 23 maggio.
Ecco come il giornalista Felice Cavallaro nel suo “Francesca storia di un amore in tempo di guerra” racconta quel primo, fatale incontro:
Falcone a quella gita è da solo perché il suo matrimonio con Rita è da poco naufragato, anche a causa del suo lavoro che lo tiene troppo lontano, specie da quando ha accettato l’offerta del giudice Rocco Chinnici che lo ha voluto con lui all’Ufficio Istruzione della sezione penale di Palermo, un posto importante ma anche molto pericoloso.
Quella giornata trapanese continua e a quella iniziale, fugace stretta di mano segue una prima, abbozzata conoscenza, fatta di una comune professione, quella di magistrato, di un medesimo luogo di lavoro, Trapani dove entrambi hanno lavorato e della passione di Giovanni Falcone per le paperelle, di cui è un collezionista da sempre; quelle paperelle che anni dopo Paolo Borsellino, amico e collega di Giovanni Falcone, ogni tanto “sequestrava” lasciando sul tavolo del giudice palermitano un simpatico biglietto: «Se la papera vuoi ritrovare, cinquemila lire devi lasciare.»
Quel primo incontro trapanese lascia il segno, una scossa, come ha scritto Aldo Cazzullo, che entrambi avvertono subito e che porterà Francesca, di lì a poco, a divorziare dal marito Giuseppe.
Tra Giovanni e Francesca la scintilla è scoccata anche se vedersi e frequentarsi non è semplice, specie in una realtà come Palermo.
Il matrimonio e il fallito attentato dell’Addaura
Quel legame nato per caso, sotto il caldo sole di Trapani, è cresciuto in poco tempo, suscitando non solo gioia ma anche invidie, gelosie, maldicenze. Quell’amore non svanisce, superando il peso dei giudizi ma, soprattutto, la paura che la mafia semina, spargendo sull’asfalto di Palermo, e non solo, un’infinita striscia di sangue.
Sono tanti, infatti, tra colleghi e poliziotti, gli amici di Giovanni e Francesca uccisi da “Cosa nostra”. Chiunque ostacoli la mafia prima o poi paga con la vita, come succede anche a Rocco Chinnici, il capo di Falcone, l’ideatore del pool antimafia, ucciso da un commando mafioso il 29 luglio 1983.
Tre anni dopo, Giovanni Falcone e Francesca Morvillo si sposano. È il 10 maggio del 1986, tre mesi esatti dopo l’inizio del Maxi Processo a Cosa Nostra; si tratta di un matrimonio riservatissimo, officiato dal sindaco Leoluca Orlando con la presenza, nelle vesti di testimone di Falcone dell’amico e collega Antonino Caponnetto.
Francesca e Giovanni decidono di proseguire nel loro lavoro in cui credono e tanto, scegliendo volutamente di non avere figli perché, come ripete spesso Falcone, non si mettono al mondo degli orfani.
I prodromi di quello che potrebbe accadere al giudice siciliano si materializzano il 21 giugno 1989.
Sono le 7.30 quando gli uomini della scorta rinvengono sulla spiaggia antistante la villa dell’Addaura che Falcone affitta per le vacanze estive, un borsone sospetto, accanto al quale ci sono una muta da sub e delle pinne. Al suo interno gli agenti rinvengono cinquantotto candelotti di esplosivo innescato da due detonatori, il tutto perfettamente stipato all’interno di una cassetta metallica.
L’attentato fallisce molto probabilmente per un improvviso cambiamento di programma più che per un caso fortuito. Per gli artificieri, intervenuti sul posto, quella bomba se fosse esplosa avrebbe disintegrato tutto nel raggio di cinquanta metri, un innesco micidiale già usato in altri attentanti mafiosi.
La reazione di Giovanni Falcone è pacata ma ferma. A chi gli chiede di commentare, dice: «Sì volevano uccidermi. Ormai ne sono certo: prima o poi, quelli lì mi ammazzeranno… La prossima volta, lo so già, sarà un’autobomba.»
Un mese dopo Falcone tornerà su quel fallito attentato, concedendo a Saverio Lodato dell’Unità, un’intervista che farà molto rumore, specie nei pasoliniani “palazzi” del potere:
Dopo l’Addaura la vita di Falcone e di sua moglie Francesca non muta. A cambiare, però, è il clima intorno al magistrato palermitano che da eroe è sempre più messo all’indice, anche da coloro che un tempo lo difendevano, esibendolo come un modello di riferimento.
Comincia, così, l’ultimo decennio del “Secolo breve”, il conto alla rovescia per i due giudici è fatalmente iniziato. “Cosa nostra” non ha smesso di uccidere, ma Francesca e Giovanni continuano a credere che la si possa sconfiggere perché, alla fine, come ripete spesso Falcone la mafia «è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine.»
La strage di Capaci
Le ultime istantanee di vita di Francesca Morvillo e Giovanni Falcone vengono idealmente scattate all’aeroporto di Punta Raisi, quando la coppia esce per dirigersi verso la Fiat Croma bianca che dovrà portarli a Palermo. Ad attenderli c’è Giuseppe Costanza, da tempo autista fidato di Falcone e sei uomini di scorta che salgono sulle altre due Fiat Croma, una marrone e l’altra azzurra, tre macchine identiche a cui, però, il destino riserverà esiti differenti.
Le tre vetture, intorno alle 17.48, lasciano lo scalo aereo siciliano per imboccare l’autostrada, destinazione Palermo. Procedono senza sirene, d’altra parte in quel mite pomeriggio siciliano di fine maggio, la fretta è un’invitata indesiderata.
La Croma marrone, con all’interno gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro (quest’ultimo, ironia della sorte, il giorno prima ha fatto cambio con il collega Luciano Tirindelli a cui, da turnazione, sarebbe spettato fare il capo scorta in quel maledetto 23 maggio) apre quel piccolo corteo.
In mezzo l’auto di Falcone che si pone alla guida, non una novità, visto che al giudice piace guidare, specie nella sua amata Sicilia. Accanto ha Francesca mentre sul sedile posteriore siede Giuseppe Costanza.
A chiudere quel trittico di auto c’è la terza Croma, quella azzurra, con dentro gli altri agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo, gli unici, insieme a Costanza, a salvarsi da quella immane catastrofe.
Sono trascorsi dieci minuti quando Giovanni Brusca, conosciuto nel mondo mafioso come “lo scannacristiani” vede transitare sul tratto autostradale A29 le tre vetture. È a lui che l’organizzazione ha dato il compito di premere il telecomando che azionerà la bomba. Lo fa alle 17.58 in punto, dopo che Nino Gioè che si trova sopra lo svincolo per Capaci e controlla tutta la scena, gli urla di schiacciare quel bottone, di farlo subito se non vuole che l’attentato vada a monte.
Brusca preme l’interruttore e le porte dell’inferno si spalancano, immediatamente. Quello che un istante prima era un tratto di autostrada, ora è uno scenario di guerra, uno dei peggiori.
La prima delle tre Fiat Croma, quella su cui viaggiano Dicillo, Schifano e Montinaro, è letteralmente scaraventata in aria. Di quei tre ragazzi «morti ammazzati, gettati in aria come uno straccio» come canterà Giorgio Faletti, non rimane nulla, tanto è deflagrante l’esplosione. Tale dirompente effetto è dovuto al fatto che è quell’auto e non quella di Falcone a passare esattamente sopra il tritolo al momento dell’esplosione.
L’auto guidata dal giudice, invece, si schianta contro il muro d’asfalto e di detriti formatisi a seguito dello scoppio. Giovanni Falcone e Francesca Morvillo sbattono violentemente contro il parabrezza, l’impatto è fortissimo ma non muoiono sul colpo.
Diverso, invece, il destino della terza Croma, quella azzurra, i cui occupanti rimangono miracolosamente incolumi. La scena che si para davanti a Gaspare Cervello, il primo dei tre agenti illesi a scendere dall’auto, ha dell’incredibile. Cervello si fa strada nonostante la spessa coltre di fumo e la quantità indescrivibile di polvere. Più si avvicina all’auto di Falcone è più teme il peggio.
Ma il giudice è vivo, come la moglie e l’autista che è seduto dietro. Arrivano i soccorsi, persino un elicottero dei carabinieri che atterra su quel lembo di orrore. Il primo degli occupanti della Croma bianca a essere tirato fuori è Francesca Morvillo. Poi è la volta di Giuseppe Costanza e, infine, solo grazie al fondamentale intervento dei vigili del fuoco, viene estratto Giovanni Falcone.
Le prime notizie sull’attentato di Capaci confermano che il giudice e sua moglie sono vivi, seppur in condizioni gravissime. Quelle informazioni rimbalzano per tutto lo Stivale, interrompendo per un fugace attimo la vita di milioni di italiani che iniziano a sperare, al contrario dei mafiosi che quella strage l’hanno fortemente voluta.
Dai loro nascondigli, più o meno segreti, imprecano, maledicono, convinti che sia tutta colpa di Brusca e del fatale ritardo con cui ha attivato il telecomando. Non sanno, ancora, invece, che “lo scannacristiani” non ha alcuna responsabilità, che tutto dipende dall’improvviso rallentamento della vettura guidata da Falcone. Ecco come Giuseppe Costanza racconta, anni dopo, quel tragico pomeriggio di fine estate alla redazione di Blitz quotidiano:
«Di quel 23 maggio 1992 ricordo lo sguardo dei due, di Falcone e la moglie Francesca Morvillo, che si incrociano nello sguardo, con lei che annuisce. Falcone in quel momento spense la macchina e tolse le chiavi, io lo redarguii dicendogli che così ci saremmo ammazzati, lui ha guardato la moglie, lei ha sorriso e lui mi ha chiesto scusa. Ma con quel gesto mi ha salvato la vita, perché la macchina rallentò quel tanto che bastò per non prendere l’esplosione in pieno. Falcone mi ha salvato la vita.»
Le speranze di milioni di italiani, tuttavia, in quella primavera già inoltrata, durano il tempo di un tramonto. Giovanni Falcone muore alle 19.05, poco più di un’ora dopo l’attentato. Spira tra le braccia dell’amico e collega Paolo Borsellino, un altro “cadavere ambulante”.
Francesca Morvillo, il cui orologio si è fermato fatalmente alle 17.58, l’ora dell’attentato, muore intorno alle 23.00, mentre i chirurghi dell’ospedale Civico di Palermo stanno tentando l’impossibile.
La notte del fallito attentato all’Addaura Francesca Morvillo, nell’abitazione di Palermo dove si trovava da sola visto che il marito aveva deciso, nonostante tutto, di rimanere nella casa al mare, scrisse un semplice biglietto che nella sua brevità eternò il legame tra lei e Giovanni:
«Giovanni, amore mio, sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me così come io spero di rimanere viva nel tuo cuore, Francesca».