Il 13 giugno 1984 Roma, la città che da anni lo ha adottato lenendo solo in parte la nostalgia per l’amatissima Sardegna, accoglie Enrico Berlinguer per dargli l’ultimo saluto. Un lunghissimo applauso, scandito da pugni chiusi, da rose rosse, da lacrime impossibili da asciugare e da un’incontenibile incredulità, accompagnano l’ultimo viaggio del comunista più amato di sempre, un uomo innanzitutto onesto che dedicò alla politica, la passione di sempre, tutta la vita, fino alla fine.
Questo è il racconto dei funerali di Enrico Berlinguer.
L’ultimo comizio, quel tragico 7 giugno 1984
Padova, 7 giugno 1984, piazza della Frutta. Una sera insolitamente fredda e plumbea fa da sfondo al palco sul quale a breve salirà Enrico Berlinguer, dal 1972 segretario del Partito Comunista Italiano.
Nella città del Santo, Berlinguer manca da dieci anni. All’epoca c’era da preparare la campagna referendaria per difendere la legge sul divorzio, un no per tutelare un diritto faticosamente conquistato. Questa volta, invece, c’è sempre un voto da conquistare ma è quello per le elezioni europee, un’occasione che nessuno vuole sprecare.
Padova è l’ennesima tappa di un lungo tour elettorale che porta Berlinguer per tutto lo Stivale, un percorso che non conosce soste, tantomeno pause. Le persone che gli stanno più vicino, specie la moglie Letizia e i figli Bianca, Laura, Marco e Maria Stella sono giustamente preoccupati per quel sommarsi di impegni che potrebbe incidere sulla salute di un marito e un padre amatissimo.
Ma sono preoccupazioni che Berlinguer respinge al mittente, rassicurando tutti ma ricordando, al tempo stesso, come il momento di un meritato riposo sia ancora lontano.
Berlinguer sale sul palco alle 21.30. Mentre minacciosi lampi rischiarano la notte padovana, inizia il suo discorso che ha corretto fino all’ultimo in hotel, confrontandosi con i suoi più stretti collaboratori, un labor limae che da sempre è una delle cifre del suo fare politica.
Sulle prime sembra il solito Berlinguer. La voce forte, l’eloquio fluente, la consueta chiarezza espositiva; nulla, a parte quelle minacciose nuvole, sembra prefigurare la tragedia che tra poco si materializzerà in quella piazza dove, nel centro, troneggia la colonna del Peronio, uno dei simboli medievali di Padova.
Poi, improvvisamente, le avvisaglie del dramma si concretizzano al cospetto del popolo comunista.
La voce di Enrico Berlinguer, inizialmente stentorea, improvvisamente muta nel tono, divenendo più lieve, instabile, intermittente. Le parole, fino a quel momento chiare, si accartocciano tra loro, divenendo quasi incomprensibili.
Il segretario comunista è costretto più volte a interrompere il suo discorso. A tutti appare evidente come non stia affatto bene. Qualcuno dalla folla, seriamente preoccupato per le condizioni di salute di Berlinguer, urla un sonoro “basta”, una accorata, dolcissima richiesta che tuttavia rimane inascoltata.
Ma il capo comunista, l’uomo di mille battaglie, di interrompersi non ha alcuna voglia. Vuole portare a termine il comizio, non sarà certo quella che sulle prime viene derubricata a semplice stanchezza e che, invece, poi assumerà i contorni di un devastante ictus, a bloccarlo.
Sono momenti concitati, permeati di crescente tragicità, Negli occhi di tutti c’è quel fazzoletto con cui Berlinguer a più riprese tampona la bocca e quegli occhiali che più volte si toglie per poi inforcarli nuovamente. Si tratta di azioni apparentemente banali ma che in quella serata che rapida lascia spazio a una tragica notte, anticipano il dramma nascente.
Berlinguer, seppur a fronte di un’immane fatica, porta a termine il comizio. Il volto, oltremodo provato, tradisce la gravità della situazione ma ha ancora la forza per regalare alla sua gente un sorriso, il suo dolcissimo congedo, la coda di una cometa che attraversa rapida quel cielo plumbeo e a cui tutti, in quella piazza padovana, teneramente si aggrappano, augurandosi che sia solo una momentanea stanchezza e nulla di più.
Non sarà così.
Dalla speranza alla disperazione, la morte di Berlinguer
Al termine del comizio Berlinguer viene accompagnato in albergo. La speranza di tutti è che qualche ora di riposo possa bastare a recuperare le forze in vista degli ultimi giorni della campagna elettorale.
Ma quel flebile desiderio dura solo il tempo di un dolcissimo sorriso. Berlinguer sta male e tanto. La situazione precipita. Viene chiamata un’ambulanza che con le sue luci azzurre buca il nero di una notte troppo buia per essere vera.
Berlinguer viene operato d’urgenza c’è un’emorragia cerebrale da arrestare. Quando le porte della sala operatoria si aprono inizia il tempo dell’attesa, quello di una vana speranza.
Passano le ore, i giorni ma dall’ospedale non arriva alcuna notizia che possa alimentare anche la fiducia più tenue.
Così il professor Giampiero Giron, allora capo della terapia intensiva del nosocomio patavino, ricorda il breve dialogo intercorso tra lui e la moglie di Berlinguer, subito dopo l’operazione:
«Mi disse, mi faccia una cortesia eviti che ci siano persone che fotografino mio marito con il turbante di bende in testa, perché vorrei che di lui restasse un’immagine di un uomo sorridente e non di un uomo malato.»
Enrico Berlinguer si spegne la mattina dell’11 giugno. Ha vinto la malattia sul sogno che in quel maledetto lunedì soffoca anche l’ultima speranza.
Anni prima Berlinguer aveva sfiorato la morte in un singolare incidente stradale lungo una delle tante vie che innervano Sofia.
Era il 3 ottobre 1973 e Berlinguer da poco più di un anno segretario del più importante partito comunista dell’Europa occidentale, si trovava nella capitale bulgara per un summit con altri leader del Patto di Varsavia.
Ma in Bulgaria, il Paese più fedele al diktat moscovita, l’accoglienza riservata al politico italiano non fu proprio delle migliori. Molti tra i presenti a quel vertice mostrarono disappunto per alcune, recenti posizioni del politico italiano che rompevano l’ingessata ortodossia del monolite comunista.
Da quel terribile scontro il segretario comunista ne era uscito incredibilmente illeso, al contrario di uno dei passeggeri; ma lo stridore delle gomme sull’asfalto, il groviglio di quelle lamiere lo avevano lasciato più che perplesso, al punto da fargli pensare che forse non si fosse trattato di un semplice incidente ma di qualcosa di diverso, un dubbio che anni dopo rilancerà Emanuele Macaluso, amico e collaboratore di Berlinguer.
Ora, però, la morte è arrivata davvero, stendendo il suo velo nero su un politico di razza, sull’ideatore del Compromesso storico, sancito da una sincera stretta di mano con Aldo Moro.
Ma la morte, quel terribile 11 giugno strappa agli italiani, soprattutto, una persona perbene.
I funerali, l’ultimo saluto a Enrico Berlinguer
Il 13 giugno 1984 il pesante portone al civico 4 di via delle Botteghe Oscure, dal 1946 la sede nazionale del Partito Comunista Italiano, viene aperto alle 7 in punto, un’ora prima di quanto previsto.
Poi sono solo lacrime, mestizia, incredulità, un florilegio di umanissime emozioni, tutte racchiuse nell’arco di un’indimenticabile giornata che milioni di italiani mai avrebbero voluto vivere.
Ha così inizio una lunga, silenziosa e commossa teoria di migliaia di persone che in fila da ore, vogliono soltanto tributare l’ultimo saluto a Enrico Berlinguer, da poche ore rientrato a Roma, accompagnato nel viaggio da Padova verso la Capitale dal Presidente della Repubblica, Sandro Pertini.
Per tutta la mattinata quel serpentone umano si muove lento per le strade che lambiscono via delle Botteghe Oscure, non lontana da quella via Michelangelo Caetani dove sei anni prima è stata scritta una delle più terribili pagine della nostra storia.
Quella muta folla sfida il caldo, la stanchezza solo per poter visitare la camera ardente, dove si trova il feretro di Enrico Berlinguer, “scortato” dalla sua gente, dagli operai, dai lavoratori che a gruppi di sei, senza soluzione di continuità, fanno da corona al corpo del dirigente comunista.
Tra i tanti volti anonimi che sfilano esterrefatti ci sono anche quelli noti di Marcello Mastroianni, Monica Vitti, Giovanna Ralli, Alberto Sordi. Si mette in fila anche Giorgio Almirante, segretario del Movimento Sociale Italiano, storico avversario di Enrico Berlinguer. Almirante, quel mattino di metà giugno, è lì per tributare il suo doveroso omaggio, per salutare, come dirà poi, un uomo onesto.
Alle 14 in punto, due ore dopo l’iniziale orario previsto, il portone del Botteghone, come da anni viene anche chiamata la sede del PCI, viene chiuso. Sono in tantissimi quelli che rimangono fuori, ordinatamente disposti in una fila che sembra non finire mai.
La delusione di chi non c’è l’ha fatta a entrare è evidente ma c’è un funerale da tenere, c’è una piazza, quella di San Giovanni in Laterano, che attende il suo capo, come accaduto vent’anni esatti prima, quando in quella stessa piazza si svolgono le esequie di Palmiro Togliatti, funerali che Renato Guttuso eternerà in un suo celeberrimo dipinto.
Ma l’amore che il popolo comunista e non solo riserva al suo segretario, quel 13 giugno, non ha eguali. Sono oltre un milione e mezzo le persone che accompagnano Enrico Berlinguer in quel suo ultimo viaggio.
Oltre alla gente comune, quella che rende davvero unico quel funerale, ci sono i potenti di tutto il mondo. Il palestinese Arafat, il sovietico Gorbaciov, Marchais, leader dei comunisti francesi e il suo omologo spagnolo Carrillo, Giulio Andreotti, Amintore Fanfani, Francesco Cossiga e il presidente del consiglio Bettino Craxi, la cui presenza, però, suscita più di un dissenso nel popolo comunista.
Non mancano, poi, i segretari dei partiti italiani; quelli delle organizzazioni sindacali e, ovviamente, ancora il Presidente degli italiani, Sandro Pertini, visibilmente provato per aver perso, prima ancora che un collega, un amico, di più, un fratello.
Di quella giornata irripetibile, di quella Roma che fin dalle prime ore del giorno si ferma per tributare il doveroso omaggio a Berlinguer, rimangono le moltissime foto, le diverse riprese video, toccanti testimonianze che, però, solo in parte, riescono a descrivere l’essenza di quei funerali, il senso di smarrimento che pervade quel popolo che sembra non voglia più lasciare Enrico Berlinguer in quell’ultima settimana di primavera.
Ma di quella giornata più dei tantissimi fiori rossi, più dei moltissimi bigliettini che riportano frasi quali “Ciao Enrico” o “Enrico ti vogliamo bene”, più delle prime pagine dell’Unità, il giornale del PCI dove campeggia un immenso ADDIO sopra il volto sorridente di Berlinguer, c’è, soprattutto, la risposta di un bambino di nove anni che al regista Ettore Scola che gli chiede perché stia lì, lui, con il candore che solo l’infanzia sa regalare, serafico afferma: «perché sono comunista da sempre.»