Il 3 ottobre 1973 Enrico Berlinguer, da più di un anno alla guida del Partito comunista italiano, rimane coinvolto a Sofia, capitale di uno dei paesi più filosovietici tra tutti quelli del Patto di Varsavia, in un singolare incidente stradale, da cui, per fortuna ne esce incolume, ma sul quale, a più di cinquant’anni di distanza, il velo del mistero ancora non è stato del tutto sollevato.
L’impegno politico nella sua Sassari
Enrico Berlinguer nasce a Sassari il 25 maggio 1922. La famiglia del futuro segretario del Pci, sotto la cui guida sarà sfiorato il sorpasso elettorale sulla Democrazia cristiana, non è proprio una qualsiasi, a cominciare dall’antica origine spagnola.
I Berlinguer, infatti, come ha scritto la giornalista Chiara Valentini in una biografia dedicata al politico sardo, «sono una delle tre o quattro famiglie che contano. Aristocratici anche se non titolati, con l’appellativo “don” ma senza feudi né decime».
L’infanzia di Enrico, come quella del fratello Giovanni, più piccolo di due anni, è ben presto segnata dal dramma che coinvolge la madre, affetta da una grave forma di encefalite che la costringe a letto, obbligando il marito Mario ad assolvere a tutte le funzioni.
Il decorso di quella patologia, originata da un virus, è lento ma inesorabile. All’iniziale letargia si aggiungono confusione mentale e poi, in una drammatica escalation, la paralisi del volto e del corpo. Maria Berlinguer muore il 15 giugno 1936. Per Enrico, iscritto alla quinta ginnasiale, è uno squarcio nella sua giovane vita.
Gli anni che seguono sono segnati dallo studio, dalla passione per il poker e da quella per la politica. Berlinguer nel novembre del 1940 si inscrive alla facoltà di Giurisprudenza di Sassari, mostrando accanto all’amore per gli studi anche quello per gli ideali. Rifiuta l’adesione al GUF (il gruppo universitario fascista) tappa obbligata per molti studenti, iniziando a manifestare interesse per i comunisti che pur nella clandestinità rimangono molto attivi.
Il primo abboccamento, originato dall’ascolto di Radio Londra fra una partita e l’altra a poker, assume ben presto la forma di un’adesione vera e propria al Partito comunista che si formalizza nell’agosto del 1943.
Agli inizi del 1944 la guerra che avvolge l’Europa da quasi cinque anni inizia a far sentire i suoi drammatici effetti anche nella lontana Sardegna. La gente sull’isola ha fame, i viveri scarseggiano e la protesta popolare monta più o meno spontaneamente ed Enrico, come altri giovani comunisti, viene arrestato, responsabile, a detta delle forze dell’ordine, di fomentare quei moti.
La detenzione dura qualche mese ma per quel giovane la prigione è una medaglia da appuntare su un petto coraggioso. Quel ragazzo che farà la storia del Partito comunista italiano non ha timore degli eventi che inevitabilmente mutano con una rapidità sorprendente, anche nella lontana realtà sassarese. Arriva il 25 aprile del 1945, la guerra, almeno sul suolo italiano è terminata. C’è un Paese da ricostruire e non solo materialmente.
L’ascesa di Berlinguer nel Partito comunista italiano
La carriera politica di Enrico Berlinguer è rapida e piena di successi. Tra i comunisti quel giovane sardo serio, preparato, idealista si fa ben presto notare. Al V congresso del Pci, il primo dopo vent’anni di clandestinità che si tiene a Roma nel gennaio del 1946, Berlinguer è, con Mario Alicata, il partecipante più giovane. La freschezza di quei ragazzi è linfa vitale per un partito che vuole crescere e contare in un momento nodale per le sorti dell’Italia.
Enrico inizia a viaggiare per il partito, a tenere i primi comizi ma, soprattutto, comincia ad assumere i primi fondamentali incarichi. Nel 1949 è eletto segretario della Figc, la ricostituita federazione giovanile, alla carica della quale rimane fino al 1956.
Il suo eloquio forbito mai banale e sempre animato, scuote gli animi dei giovani comunisti e non solo. Berlinguer è ammirato dai maggiorenti del partito, a cominciare da Palmiro Togliatti che del Pci non è solo il segretario ma il dominus.
Emblematico, in tal senso, è il comizio che da segretario della Fgci pronuncia a Roma nella primavera del 1953 contro l’imminente approvazione della legge promossa dalla Dc di modifica del sistema elettorale, ribattezzata da Gian Carlo Pajetta, un altro giovane comunista, “Legge truffa”:
«La Dc non ha saputo dare in questi anni alla gioventù italiana che miseria, fame, avvilimento, disperazione e promette ai giovani e a tutto il paese prospettive ancora più fosche di discordia, di guerra, di dittatura, di rovina nazionale.»
Enrico Berlinguer, segretario del Pci
Nel 1956 Berlinguer lascia la Figc. Lo fa sul finire di settembre di un anno chiave per i comunisti, segnato dalla denuncia dei crimini commessi da Stalin fatta da Krusciov, in occasione del XX congresso del Pcus ma caratterizzato anche dai moti polacchi del mese di giugno e, soprattutto, da quelli ungheresi, ben presto repressi dai carrarmati sovietici.
Berlinguer abbandona la Federazione giovanile con quello stile defilato che lo contraddistinguerà sempre, nel solco di Palmiro Togliatti, alla cui scuola politica Enrico è cresciuto.
La stima del Migliore ma anche quella di Longo gli aprono le porte della segretaria del partito, il cui ingresso si ufficializza nel corso del congresso del 1960, quando viene nominato responsabile dell’organizzazione del Pci.
Neppure l’improvvisa morte di Togliatti, il 21 agosto 1964, muta il corso degli eventi. Nel 1968 arriva la sua prima partecipazione alle elezioni che lo vedono trionfare con ben 150.000 preferenze, una scommessa vinta da Longo che nelle liste elettorali inserisce anche due altri giovani rampanti: Alessandro Natta e Giorgio Napolitano.
A un anno di distanza da quel successo elettorale arriva per Berlinguer la nomina a vicesegretario del Pci, una carica non formale, viste le condizioni di salute decisamente precarie di Longo. Le porte del palazzo di via delle Botteghe oscure, la storica sede del Partito comunista acquistata nel 1946, si aprono definitivamente il 17 marzo 1972, quando viene eletto segretario del Pci nel corso del XIII congresso che si tiene a Milano.
Berlinguer che di lì a due mesi compirà cinquant’anni, accetta quella che più che un’elezione è una vera e propria investitura, non senza una certa preoccupazione, ma è un compito, una responsabilità, a cui non può rinunciare.
Il primo discorso da segretario del più importante partito comunista d’Europa, enunciato a braccio in un Palalido di Milano traboccante di entusiasmo, è brevissimo ma emblematico dello stile che quel politico arrivato dalla Sardegna, vorrà inaugurare.
«Compagni, dovete sapere che non posso essere un segretario come avete conosciuto in Togliatti o in Longo. Non aspettatevi da me quel che non posso dare.»
E invece darà moltissimo ai comunisti e a tutta la politica italiana.
Berlinguer a un passo dalla morte
Sofia, 3 ottobre 1973. È già sera quando un piccolo corteo di berline, precedute da moto rombanti con le sirene spiegate, muove alla volta dell’aeroporto internazionale. Su una di quelle vetture, una Chaika nera dal profilo massiccio e con una vistosa calandra, c’è Enrico Berlinguer. Con lui, oltre all’autista, anche un interprete e due alti dirigenti bulgari, Boris Velchev e Konstantin Tellalov.
Sono gli ultimi momenti della visita ufficiale di Berlinguer e dei suoi due collaboratori, Gastone Gensini e Angelo Oliva, in terra bulgara, un incontro bilaterale che risulta, fin dal primo giorno, non semplice.
Al netto delle note ufficiali diffuse dai paludati media locali, la realtà di quella serie di incontri è ben altra. Da tempo i rapporti fra i comunisti italiani e quelli bulgari non sono dei migliori. Di Berlinguer e delle sue idee troppo innovative, Todor Zivkov, dal 1954 il leader incontrastato della Bulgaria, si fida poco, al pari dei sovietici che sul politico italiano nutrono dubbi da diversi anni, fin dalla sua nomina, nel marzo 1969, a vicesegretario del Pci.
Le vetture, intanto, proseguono veloci e quando all’aeroporto mancano pochi chilometri, accade l’irreparabile. Da una strada laterale sbuca improvvisamente un camion militare, carico di pietre. L’impatto con la vettura su cui viaggia Berlinguer è violentissimo. L’autista perde il controllo della grossa berlina nera, la cui corsa viene fortunatamente attenuata da un provvidenziale palo della luce. Le conseguenze dell’incidente, chiaramente visibili, la fiancata sinistra è pressoché distrutta, sono drammatiche. L’interprete muore sul colpo, mentre i due dirigenti bulgari rimangono gravemente feriti.
Enrico Berlinguer, invece, rimane miracolosamente incolume, eccezion fatta per qualche lieve graffio al volto e per delle evidenti ecchimosi. Trasportato in ospedale viene subito medicato dai medici che insistono perché rimanga in osservazione per almeno quarantotto ore.
Non sarà così. Il giorno dopo Berlinguer rientra a Roma, lo fa a bordo di un aereo messo a disposizione dall’ambasciata italiana. Il segretario comunista vuole lasciarsi alle spalle quanto accaduto a Sofia anche se le modalità di quel singolare incidente gli lasciano più di un dubbio.
Nel parlare con la moglie Letizia riaffiorano i ricordi di quegli attimi fatali, in cui ha davvero rischiato di morire. Ricorda la velocità eccessiva della macchina su cui viaggiava, sebbene le sue reiterate richieste di rallentare e soprattutto l’improvvisa uscita di quell’autocarro, per molti aspetti inspiegabile, visto che ogni incrocio del tragitto era presidiato da un numero notevole di poliziotti.
All’incidente fa riferimento anche “L’Unita”, con una breve nota, datata 14 ottobre 1973. Si tratta di poche righe che l’organo ufficiale del partito scrive, più che altro, per rassicurare tutti sulle condizioni di Berlinguer:
«In relazione alla notizia pubblicata da qualche giornale sulle condizioni dell’onorevole Berlinguer si precisa che esse sono del tutto normali. Durante il recente soggiorno in Bulgaria del segretario del Pci, l’auto sulla quale egli si trovava ha avuto un incidente a seguito del quale l’onorevole Berlinguer ha riportato leggere contusioni senza alcuna conseguenza.»
Sui fatti di Sofia scende inevitabilmente il sipario dell’oblio, spesso il miglior dottore per dimenticare tutto.
L’intervista di Emanuele Macaluso
Dell’incidente bulgaro si torna a parlare sul finire del 1991. Sono trascorsi quasi vent’anni, un lasso di tempo in cui è accaduto di tutto. Enrico Berlinguer è morto l’11 giugno 1984, improvvisamente, lasciando tutti sgomenti. Si è sentito male durante un comizio a Padova, quattro giorni prima.
La folla impressionante che lo saluta in piazza San Giovanni a Roma, per l’ultima volta, è la vivida testimonianza non solo dell’amore della sua gente ma anche del ruolo che quel piccolo, grande uomo ha avuto.
Nel 1989 cade il Muro di Berlino e con esso un sistema politico già in grave difficoltà che riceverà, di lì a poco, con l’inchiesta di Mani pulite, l’ultimo, definitivo colpo.
Quando nell’ottobre del 1991, Emanuele Macaluso, amico e collaboratore di Berlinguer, rilascia al settimanale “Panorama” una lunga intervista, sembra che dai fatti di Sofia sia trascorsa un’eternità.
Al giornalista Giovanni Fasanella, Macaluso, esponente di quel Pci che da poco ha mutato nome e struttura, manifesta i suoi dubbi su quel singolare incidente, ipotizzando la possibilità di un attentato.
Le affermazioni dell’ex dirigente comunista trovano una vasta eco sui media e due giorni dopo a rilanciare è Letizia Berliguer, la moglie dello statista sardo, intervistata per “L’Unità” da Stefano Di Michele.
«Quando Enrico ritornò dalla Bulgaria, dopo quello che era accaduto mentre si recava all’aeroporto -ricorda Letizia Berlinguer- mi comunicò il suo sospetto. E cioè che quello non fosse stato un incidente.»
Di quei sospetti, tuttavia, Berlinguer non parla ad altri, sia per la mancanza di vere e proprie prove ma anche per la sua nota riservatezza. Sulla questione di quello strano incidente il segretario del Pci non torna più, continuando a comportarsi e a vivere normalmente, mostrando la sua proverbiale serenità, non vivendo, certo, come sottolinea la moglie «con la preoccupazione che all’Est qualcuno potesse eliminarlo» tanto che compie in seguito diversi viaggi oltre Cortina, a partire da quello in Germania orientale, compiuto nello stesso anno dell’incidente.
L’inchiesta giornalistica su quel misterioso incidente
Le parole di Macaluso, prima, e della signora Berlinguer, dopo, convincono Giovanni Fasanella a indagare, provando a fare luce su un episodio che, oggettivamente, mostra alcune zone d’ombra. Per questo decide di partire alla volta della Bulgaria e lo fa insieme al collega Corrado Incerti. Dal 9 al 16 novembre 1991 i due giornalisti di “Panorama” sono a Sofia, provando a dipanare il filo degli eventi.
Nella capitale bulgara portano avanti, non senza fatica, un’accurata indagine. Raccolgono indizi, analizzano fonti diverse, tra cui il verbale stenografico degli incontri di Varna e Sofia. Ascoltano svariati testimoni, specie alti funzionari del disciolto Partito comunista bulgaro che da poco ha mutato nome in Partito socialista, una scelta, tuttavia, non premiata dagli elettori nelle prime elezioni libere dalla caduta del regime.
Tornati in Italia proseguono l’indagine, scandagliando gli appunti personali di Berlinguer, consultati all’Istituto Gramsci. Per Fasanelli e Incerti quello che si è verificato nell’ottobre del 1973 non è stato un incidente. Manca, tuttavia, la prova regina, anche perché, nel corso degli anni, molti testimoni chiave sono morti e diversi documenti sono andati irrimediabilmente dispersi, carte che avrebbero potuto essere molto utili per ricostruire l’intricata trama dei fatti.
L’indagine dei due giornalisti prosegue nel corso degli anni e sfocia in un libro dall’icastico titolo: “Berlinguer deve morire. Il piano dei servizi segreti dell’est per uccidere il leader del Pci”. Edito da Sperling & Kupfer il libro esce nel 2005 e rieditato con delle importanti aggiunte nel 2015.
La tesi dell’incidente stradale, la posizione di Vladimiro Satta
Se per Fasanella e Incerti a Sofia quel 3 ottobre del 1972 accadde qualcosa di oggettivamente misterioso, maldestramente camuffato da incidente stradale, una verità, tuttavia, non dimostrabile a causa della mancanza di prove certe, per molti storici e giornalisti, di diversa estrazione politica, quello che vide coinvolto Enrico Berlinguer fu solo e soltanto un incidente stradale.
Di questo folto gruppo fanno parte, tra gli altri, il biografo del leader comunista Giuseppe Fiori, i giornalisti Lanfranco Palazzolo e Tonino Bucci, ma soprattutto Vladimiro Satta, storico, saggista, funzionario dell’archivio del Senato della Repubblica che al tema dei misteri o presunti tali, specie quelli legati alla vicenda del sequestro di Aldo Moro, ha dedicato gran parte della sua vita.
Sulla vicenda lo studioso scrive un corposo articolo pubblicato, nel 2019, sulla rivista “XXI secolo” dal titolo Berlinguer in Bulgaria 3 ottobre 1973: incidente o attentato?
Nelle oltre trenta pagine sottolinea come la tesi dell’attentato, mascherato da incidente, non stia in piedi, a partire dalla totale mancanza, a suo avviso, di un movente. Fra i due partiti comunisti, quello bulgaro e quello italiano, non c’erano, al contrario di quanto sostenuto da Fasanella e Incerti, tensioni tali da giustificare un atto così grave e dalle pesanti conseguenze politiche, come quello di un attentato ai danni del segretario del Pci.
Inoltre a non convincere Satta sono anche le modalità, decisamente raffazzonate, piuttosto approssimative, del presunto falso incidente, dal quale, non a caso, Berlinguer ne esce praticamente illeso. Per lo storico tutta l’ipotesi dell’attentato si basa sull’intervista che Emanuele Macaluso rilascia nel 1991, a molti anni dai fatti bulgari e che avrebbe dovuto riguardare ben altro, ovvero i finanziamenti del KGB al Partito comunista italiano.
Ad avviso di Satta il riferimento di Macaluso al misterioso incidente di Sofia, del tutto inatteso, ebbe lo scopo deliberato di sviare l’intervista che si stava facendo abbastanza pressante sulla scottante questione dei finanziamenti.
Insomma Macaluso, incalzato da Fasanella, buttò una vera e propria bomba mediatica nel bel mezzo del colloquio con il giornalista di “Panorama”, quella del presunto attentato, per distogliere l’attenzione, portando, come effettivamente accadde, Fasanella ad approfondire la questione del finto incidente. Un obiettivo raggiunto da Macaluso visto che da quel momento in poi l’intervista riguardò solo i fatti di Sofia, mandando in soffitta la vexata questio dei finanziamenti illeciti.
Per Vladimiro Satta quello che avvenne a Sofia fu, in buona sostanza, solo un incidente, drammatico negli effetti ma null’altro, un episodio che non solo non mutò le relazioni fra il Pci e gli altri partiti comunisti orientali con i quali, invece, lo strappo, anche finanziario, si concretizzò soltanto a partire dai primi anni Ottanta.
A distanza di cinquant’anni dai quei fatti se un velo d’incertezza su cosa avvenne effettivamente a Sofia permane, è inossidabile, invece, la verità sulla grandezza umana e politica di Enrico Berlinguer, uno statista come pochi, capace di intravedere prima di molti il fenomeno della partitocrazia, la sostanziale occupazione da parte dei partiti delle istituzioni statali, i cui effetti catastrofici diventeranno evidenti sul finire degli anni Ottanta, quando, purtroppo, Enrico Berlinguer non c’era già più.
Così i Modena City Ramblers misero in musica e parole l’emozione infinita provata dal popolo di Enrico Berlinguer il giorno dei suoi funerali:
«Un popolo intero trattiene il respiro e fissa la bara, sotto al palco e alla fotografia.
La città sembra un mare di rosse bandiere e di fiori e di lacrime e di addii…»