«Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene e sono degni perciò di accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore.»
Con queste parole scritte da Aldo Moro dalla prigione del popolo e indirizzate al segretario della Dc Benigno Zaccagnini, lo statista democristiano, quasi sicuro che dal carcere brigatista non sarebbe uscito vivo, fissa in modo chiaro e incontrovertibile le sue ultime volontà, disposizioni che, solo in parte, verranno rispettate.
Perché al ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Michelangelo Caetani nel bagagliaio di una Renault 4, il 9 maggio 1978, seguiranno ben due funerali, seppur diversissimi fra loro per tempo, luogo e modalità.
Il primo fu celebrato in forma assolutamente privata lontano da Roma, nella quiete di un piccolo paesino affacciato sulla Valle Tiberina. Il secondo, invece, si svolse a Roma, nella maestosità di San Giovanni in Laterano, alla presenza del sommo pontefice e di una teoria di politici, paludati e schierati davanti a una bara drammaticamente vuota.
Questa è la storia di quei due funerali, triste, suprema metafora di un Paese che dopo l’assassinio di Aldo Moro non sarà più lo stesso.
«Siamo quasi all’ora zero: mancano più secondi che minuti»
È trascorso più di un mese da quando Moro è stato prelevato in via Fani dai brigatisti che in un’operazione terroristica senza precedenti hanno sterminato l’intera scorta, cinque vite spezzate in una manciata di secondi. Il presidente della Dc chiede carta e penna per scrivere l’ennesima lettera, la cinquantasettesima da quando si trova nella prigione del popolo. Destinatario della missiva è il segretario della Democrazia Cristiana, quel Benigno Zaccagnini che tanto ha voluto Moro alla presidenza del partito in una delle assemblee più tese degli ultimi tempi per il partito che fu di Alcide de Gasperi.
Moro fin dalle prime righe della lettera non nasconde la tragicità della situazione, sottolineando come si sia quasi giunti all’ora zero, al punto di non ritorno. Il tempo scorre rapido, i minuti si travestono drammaticamente da secondi ma pur nell’angoscia di una notte che si fa sempre più cupa, Moro intravede una piccola, flebile speranza che ha i contorni di un atto di coraggio senza condizionamento alcuno che potrà e dovrà compiere solo e soltanto Zaccagnini.
All’amico, sodale e collega di partito Moro chiede di non essere incerto, pencolante, acquiescente, ma di essere, al contrario, coraggioso e puro come quando era giovane.
Ma al coraggio di Zaccagnini e del suo partito Moro crede poco, sa bene come «l’iniqua ed ingrata sentenza della D.C.» sia stata già scritta e difficilmente sarà modificata.
Per questo nella lettera, probabilmente scritta il 23 aprile ma recapitata il giorno successivo, il politico pugliese con grande lucidità e nettezza, dopo aver sottolineato come non assolverà e non giustificherà nessuno, perché nessuna ragione politica e morale potrà mai spingerlo a farlo, verga le sue ultime volontà, chiedendo «per una evidente incompatibilità» che ai suoi funerali «non partecipino né Autorità dello Stato, né uomini di partito» ma solo quei pochi che gli hanno davvero voluto bene.
«Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene»
Torrita Tiberina, 10 maggio 1978. Il cielo sopra questo paesino alle porte di Roma, da anni il buen retiro di Aldo Moro, ha il color del piombo. La nebbia sale rapida dalla sottostante valle mentre una fitta e intensa pioggia cade intermittente su un piccolo gruppo di persone che protette da grossi ombrelli neri, fa ingresso nella chiesa parrocchiale di San Tommaso apostolo, il più scettico tra i discepoli di Gesù, colui che dovette toccare pur di credere all’avvenuta resurrezione.
Quelle poche persone che in quel secondo mercoledì di maggio accedono silenziose nella parrocchia di Torrita Tiberina sono il piccolo seguito al feretro di Aldo Moro, il cui corpo è stato ritrovato il giorno prima in via Michelangelo Caetani, a due passi dalla sede della Democrazia cristiana, nella barocca piazza del Gesù ma anche a poche decine di metri dalla sede del PCI, in via delle Botteghe Oscure.
La cerimonia funebre è semplice, sobria ma molto commovente, come ricorda don Antonio Giacomini che concelebra quelle esequie insieme al parroco don Agostino Mancini e a don Carlo Crucianelli.
Terminata la cerimonia funebre il feretro lascia la chiesa di San Tommaso e si dirige verso il piccolo cimitero del paese dove la bara di Moro viene tumulata nella cappella di famiglia, comprata l’anno prima dallo statista, «nell’affettuoso sconcerto dei familiari» come ha scritto lo storico Guido Formigoni nel suo “Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma”.
Poi sulla vicenda umana di Aldo Moro scende la notte e con essa il silenzio protetto da quella natura che abbraccia quel minuscolo cimitero e che i familiari sperano sia finalmente rispettato. Ma, purtroppo, non sarà così.
Aldo Moro: «Chiedo che ai miei funerali non partecipino né Autorità dello Stato, né uomini di partito»
Ben altra è l’atmosfera che tre giorni dopo i funerali a Torrita accompagna le esequie pubbliche che uno Stato sordo alle volontà della famiglia di Aldo Moro inscena nella capitale della Repubblica.
Il teatro di quella messinscena non è una piccola chiesa di paese ma la cattedrale di Roma e su quell’improvvisato, crepitante palcoscenico non si muove un semplice parroco, ma il pontefice in persona, quel Paolo VI, amico fraterno di Aldo Moro a cui il politico imputò in una lettera di aver fatto «pochino» per la sua liberazione.
È un papa invecchiato, stanco, segnato dalla malattia che rapida sta dilaniando il suo corpo, (morirà tre mesi dopo) ma, soprattutto, provato dall’angoscia per la morte di una persona cara, al culmine di una vicenda politicamente intensa e umanamente drammatica.
Le parole dell’omelia, scritta di suo pugno che il vecchio papa pronuncia, sono, a dispetto della voce flebile, forti, intense, profondamente umane, un grido rivolto verso il Signore della vita e della morte che non ha «esaudito la nostra supplica per l’incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico.»
Parole che tradiscono la difficoltà del vecchio papa di scorgere in quell’amaro epilogo il disegno della provvidenza e che marginano l’impotenza del successore di Pietro. Parole che assumono i connotati di un’invocazione straziante e che ricordano quel Heloì Heloì lamà sabachtani emesso da un Cristo esausto poco prima di spirare in croce.
Ma il tratto distintivo della funzione che si svolge in San Giovanni non è l’umanità, ma la surrealtà. Quel 13 maggio, lo stesso giorno in cui viene varata la cosiddetta Legge Basaglia che porterà alla chiusura dei manicomi, il popolo italiano assiste impotente alla rappresentazione dell’ipocrisia, vedendo sfilare davanti a una bara vuota le effigi smunte di un potere politico logorato, lontanissimo da quella tragedia che prima ancora che storica è angosciatamente umana.
Davanti al cardinal Poletti che officia la funzione si schiera compatta una lunga teoria di politici nelle loro livree istituzionali che odorano di naftalina e ipocrisia. Non ci sono, invece, i familiari di Moro, eccezion fatta per i fratelli dello statista. La famiglia, infatti, dalla moglie Eleonora, la dolcissima Noretta di una delle più intense lettere scritte da Moro, ai figli, preferisce, nonostante il tentativo estremo dello stesso Poletti, astenersi, mantenendo fede al comunicato ufficiale, diffuso quel drammatico 9 maggio:
Il 10 e 13 maggio furono due date indelebili scritte sul calendario della nostra storia, la plastica espressione di due volti diversi e al tempo stesso identici, rappresentazione ossimorica del nostro variegato Paese.
La migliore sintesi di quei due funerali l’ha data Giovanni Antonio Fois che nel suo libro “Aldo Moro – Cronache di un delitto” ha scritto:
«da una parte Moro senza lo Stato. Dall’altra, lo Stato senza Moro.»