A vederlo sembra un semplice chiavistello, oltretutto piuttosto malmesso. Si tratta, invece, del protagonista di una storia che affonda le radici nella metà del XV secolo, simbolo di una rivalità mai sopita tra due borghi della Toscana, ancora oggi meta di viaggi che portano in questi siti migliaia di turisti affascinati da luoghi unici, scrigni di bellezza e storicità che sussurrano fatti che non si smetterebbe mai di ascoltare.
Questa è la storia del Catorcio di Anghiari.
Una festa tanto attesa
Anghiari, 29 giugno 1450. Gli echi della battaglia che esattamente dieci anni prima aveva visto contrapporsi le truppe fiorentine, comandate da Giovanni Paolo Orsini, a quelle del Ducato di Milano, guidate da Niccolò Piccinino, sono ancora vivi tra gli anghiaresi, orgogliosi di aver ospitato sulle loro terre un evento che aveva consolidato il potere fiorentino a scapito di quello lombardo.
Ma oggi più della battaglia che anni dopo ispirò Leonardo da Vinci per la sfortunata pittura nel Salone dei Cinquecento, in Palazzo Vecchio a Firenze, c’è da festeggiare San Pietro, a cui gli abitanti di Anghiari e non solo sono particolarmente devoti.
Nel comune toscano già dalle prime ore del mattino di quel penultimo giorno di giugno si respira aria di festa, di solennità, di celebrazione. Le strade sono addobbate al meglio, tutto lascia presupporre una giornata davvero indimenticabile.
Fulcro dei festeggiamenti in onore di San Pietro è la locale fiera, atteso evento che calamita migliaia di persone dai paesi vicini, specie da Borgo San Sepolcro. Con il borgo aretino, oggi custode di meravigliose opere d’arte tra cui il meraviglioso Polittico della Misericordia di Piero della Francesca, i rapporti non sono proprio improntati alla cordialità, ma oggi si spera che il clima di festa prevalga sugli atavici e mai sopiti dissapori. Non sarà così!
Dalla festa alla battaglia
Prima qualche sberleffo; poi alcune offese; infine l’affronto diretto. Insomma, in breve dal clima di festa si passa allo scontro fisico, una gazzarra che inevitabilmente spalanca le porte al caos.
Per le vie del piccolo borgo toscano scoppia una vera e propria battaglia a colpi di pugni e bastoni.
Ad averla la peggio sono i biturgensi (questo il nome degli abitanti di San Sepolcro, da Biturgia, come un tempo si chiamava il borgo aretino, prima che un violento terremoto lo distrusse del tutto) cacciati a forza da Anghiari tra l’entusiasmo della popolazione locale.
Ma l’onta di quella disfatta, maturata oltretutto in un giorno di festa, deve essere al più presto cancellata e nel modo più inesorabile possibile.
Mentre la notte placida distende il suo manto scuro su Anghiari, ristorando con la sua frescura gli animi ancora eccitati dei suoi abitanti, ecco che la vendetta, un piatto da servire freddo, viene abilmente confezionata.
Approfittando del favore delle tenebre che solo una pallida luna prova a sfidare, oltre quattrocento biturgensi, armati di tutto punto, si avvicinano alle mura con l’unico intento di cancellare quell’odioso smacco.
Ad avere la peggio, questa volta sono gli anghiaresi che in inferiorità numerica, non superano le centocinquanta unità, vengono presi a sonore bastonate.
L’ultimo smacco, il furto del catorcio
Ma la disfatta non è completa. I biturgensi non paghi della clamorosa batosta inferta agli storici rivali, mettono in atto la più ingegnosa e oltraggiosa delle ritorsioni: il furto del chiavistello che chiude la porta del Ponte di Anghiari.
Il catorcio viene rapidamente staccato e portato al sicuro tra le risa di coloro che hanno messo in atto quella irriverente bravata.
Ma per conoscere l’ultimo capitolo di questa incredibile storia, ovvero la reazione degli adirati anghiaresi, affidiamoci a un cronista d’eccezione, il pratese Lorenzo Taglieschi che nella prima metà del Seicento scriverà gli “Annali della terra di Anghiari”, cittadina che imparò a conoscere e ad amare e dove morirà nel 1654.
«Ma gli Anghiaresi, essendosi poi accorti del catorcio rubato, si misero dietro a’nimici, et avendo questi preso vantaggio con la fuga, erano già passati il Ponte del Tevere dove, incontratisi in una squadra di donne che erano venute dietro a loro Borghesi, alle quali gli Anghiaresi (non potendo in altro modo vendicarsi) tagliarono loro le gonnelle sino alla cintura e ciascuno su le piche e bastoni, a guisa di trofeo, portava il suo pezzo i quali per memoria di questo fatto furono conservati poi lungo tempo nella fraternita d’Anghiari sin che (non sono molti anni), essendo guasti dalle tignole, furono gettati via.
E tale fu il fine dell’assalto de’ Borghesi, da’ quali fu posto poi il Catorcio d’Anghiari nella publica piazza in luogo eminente, impiombato in una muraglia, mostrandolo a ognuno con grande ardore e devotione, come se fosse il catorcio delle porte di Terra Santa.»