Il 5 maggio 1821 moriva, a Sant’Elena, Napoleone Bonaparte, una data, grazie anche alla celebre poesia di Alessandro Manzoni, scolpita nella storia.
Questo è il racconto degli ultimi anni di vita del generale còrso, dell’ex imperatore dei francesi, di colui che osò sfidare il mondo.
L’isola di Sant’Elena, l’approdo finale di Napoleone
Nella lontana isola di Sant’Elena, un punto sperso nell’oceano Atlantico, Napoleone Bonaparte approda il 15 ottobre 1815, dopo essersi arreso agli inglesi, il 15 luglio, un mese dopo la sconfitta a Waterloo che ha visto definitivamente tramontare l’astro del grande generale.
Inizia, così, su quello sperone emerso dai mari, l’ultimo, leggendario capitolo di una vita che sembra tratta da un romanzo, in cui si profila, ancora una volta, un’isola.
Dopo la natia Corsica, dopo l’Elba, ecco tratteggiarsi i contorni della minuscola Sant’Elena, un lembo di terra, lungo 17 km e largo 10, scoperta dai portoghesi nel 1502 e così chiamata in onore di Sant’Elena, la madre dell’imperatore Costantino.
Questa volta gli indomiti avversari di Napoleone non vogliono commettere errori.
Per questo confinano il grande generale, che ancora spaventa l’Europa, in un luogo lontanissimo, da dove, fuggire è impossibile, un’eventualità, a suo tempo, già presa in considerazione dal Congresso di Vienna, salvo, poi, optare per la più ospitale isola d’Elba.
Sant’Elena che «sorge bruscamente dall’oceano come un mostruoso e nero castello» come scrisse Charles Darwin l’8 luglio 1836, di ritorno da un’esplorazione nell’emisfero meridionale a bordo del mitico Beagle, non sarà solo il nuovo approdo di Napoleone, sarà, soprattutto, la sua tomba.
A spingere per Sant’Elena è stato in particolare Arthur Wellesley, più noto come il Duca di Wellington. A suo avviso quel orlo di terra che dista 1.900 km dalla costa africana e ben 3.000 da quella brasiliana, è perfetto per chiudere definitivamente i conti con il grande sconfitto di Waterloo.
Per questo motivo il 26 luglio 1815, a poco più di un mese da quell’epica ed esiziale battaglia in terra belga, a Londra, viene stipulato un accordo in virtù del quale la Compagnia delle Indie orientali cede l’amministrazione dell’isola al governo inglese per tutta la durata della detenzione di Napoleone.
A comunicare all’ex imperatore la sua destinazione è l’ammiraglio della Bellerophon Lord Keith al quale Napoleone, non senza un moto di stizza, ricorda di essere stato tradito, che gli accordi precedentemente stipulati al momento della sua resa erano diversi e prevedevano il trasferimento in Inghilterra o, ancor meglio, negli Stati Uniti ma sempre da uomo libero. Se avesse saputo di diventare prigioniero di guerra, Napoleone non avrebbe mai accettato alcun tipo di accordo.
L’idea che possa essere trasferito su quell’isola è per l’eroe di mille battaglie semplicemente inaccettabile, tanto valeva, allora, come si lascia sfuggire in una confidenza, essere trasferito nel penitenziario di Botany Bay, in Australia.
Così Emmanuel Las Cases, il biografo di Napoleone, descrive la reazione del generale alla notizia di Sant’Elena:
Le rimostranze di Napoleone, seppur vibranti, servono a poco. Il 9 agosto viene trasferito sul Northumberland, la nave che lo porterà a Sant’Elena dove arriverà a metà ottobre.
Napoleone e la vita a Sant’Elena, un oceano di solitudine prima della morte
La vita a Sant’Elena appare fin da subito ben diversa da quella immaginata. I giorni all’Elba sono solo un lontano ricordo. Su quell’isolotto adagiato sul Tirreno, sui cui Napoleone aveva regnato per alcuni mesi preparando il grande ritorno infrantosi nel fango di Waterloo, era stato pur sempre un re.
A Sant’Elena, invece, è soltanto un prigioniero degli inglesi, da sempre i suoi peggiori nemici.
Sulle prime Napoleone, in attesa che l’edificio assegnatogli sia adeguatamente preparato, viene ospitato in casa di William Balcombe, un agente della Compagnia delle Indie.
Così lo storico Vittorio Criscuolo, autore di Ei fu. La morte di Napoleone, descrive quel primo alloggio di Napoleone:
Il 10 dicembre, ultimati i lavori, Napoleone lascia la casa di William Balcombe per trasferirsi in una dimora decisamente più grande.
Va a vivere in una località chiamata Longwood, un vasto altopiano a 500 m di altitudine che, però, a dispetto dell’altisonante nome, di boscoso non ha proprio nulla, risultando una distesa brulla e desolata dove, di alberi, non c’è neppure l’ombra.
Quando Napoleone vede la sua nuova casa esclama sconsolato: «E’ là dunque che mi tocca vivere.»
L’ultima ora dell’uom fatal, la morte di Napoleone Bonaparte
Nella dimora di Longwood Napoleone vivrà meno di sei anni, fino a quel fatale 5 maggio 1821. Si tratta di una dimora isolata e costantemente sorvegliata da gruppi di guardie, un luogo, al pari dell’isola stessa, da cui è davvero impossibile fuggire.
A Napoleone è vietato vedere persone, eccezion fatta per i membri della sua piccola corte, tra cui il secondo cameriere Louis-Etienne Saint-Denis, che Napoleone chiama affettuosamente il “mamelucco”.
A seguito dell’ex generale c’è anche il medico irlandese Barry Edward O’Meara, conosciuto a bordo del Bellerophon e con il quale il còrso ha intessuto un buon rapporto, scandito da lunghe conversazioni condotte in francese e, talvolta, anche in italiano.
La vita di Napoleone a Sant’Elena corre su binari lentissimi, sillabata da rituali pressoché identici e dall’opprimente allerta inglese. L’ex generale, che in pochi mesi sembra essere invecchiato di anni, ripete come un mantra a Las Cases ma anche a quelle poche persone con cui riesce a parlare, di come l’Inghilterra abbia violato ogni fondamentale regola del diritto, trattandolo come un prigioniero di guerra e deportandolo su in quel posto assurdo.
Ma quelle reiterate lamentele, servono a poco e non leniscono lo sconforto in cui Napoleone è caduto, acuito, anche, da una salute sempre più precaria, minacciata dal riaffacciarsi di malanni atavici, un penoso bagaglio che si porta dietro da anni.
Tossisce spesso e, specie la notte, è ossessionato dai dolori alle gambe e al ventre che non gli permettono di riposare. Cammina sempre più a fatica e alle passeggiate a piedi preferisce, di gran lunga, quelle a cavallo, che almeno lo rilassano, anche se il tragitto è sempre limitato e sorvegliatissimo.
Il clima, poi, in quel posto al confine del mondo, è davvero insopportabile, specie su quell’altopiano, privo di alberi, battuto dal sole e dai venti e da cui non riesce neppure a vedere l’amato mare.
I rapporti con il governatore dell’isola, Sir Hudson Lowe, sono pessimi. In privato lo apostrofa come la iena, il carceriere che desidera solo la sua morte e che, probabilmente, da Londra ha ricevuto l’incarico di ucciderlo.
Al capitano della fregata Havannah che gli chiede come stia, Napoleone, perdendo la pazienza, grida che sta male, che desidera la libertà o, in sua assenza, semplicemente il boia.
Da tempo Napoleone, visto i ripetuti e barbari silenzi dei suoi carcerieri, come ha scritto lo storico Max Gallo in una fortunata biografia sul grande generale, ha smesso di chiedere notizie della moglie e dell’amato figlio, quel Napoleone II che è stato imperatore dei francesi per soli due giorni.
Si consola contemplando i ritratti della moglie Maria Luisa e il busto del figlio che un marinaio gli ha portato da Londra e che Lowe vorrebbe frantumare, convinto che al suo interno si celino chissà quali segreti messaggi.
Con quei pochi con cui discorre, si lascia andare a ricordi e confidenze, specie sulla ex moglie Giuseppina, una donna che non ha mai dimenticato, che lo ha reso un marito felice e che «si è sempre dimostrata la sua più tenera amica.»
Napoleone è sempre più apatico, trascorre le giornate senza far nulla, sperando solo che i dolori gli concedano una breve tregua. Qualche volta scrive, ogni tanto legge, il più delle volte attende qualcosa che spera arrivi quanto prima.
Ingrassa a vista d’occhio. Il ventre, mai stato piatto in verità, è divenuto eccessivamente prominente, spia di un incipiente aggravamento.
Il medico Francesco Antommarchi, sbarcato a Sant’Elena per volere della mamma di Napoleone, dopo la cacciata da parte degli inglesi di O’Meara, ritiene che i problemi di salute del suo illustre paziente siano di natura psicosomatica. Gli suggerisce di camminare, di stare il più possibile all’aperto, ma sono consigli che si perdono nel vento.
La sua compagna più fedele, ormai, è la solitudine, specie da quando gli inglesi hanno costretto Las Cases e suo figlio a lasciare l’isola, con l’accusa, mai provata, di essere delle spie.
Napoleone si lascia andare ai ricordi di epici scontri e trasportato da quel flusso immoto di memorie rimpiange sempre più spesso di non esser morto in battaglia, magari a Waterloo, l’origine dell’inferno in cui è caduto.
A Bertrand, l’ex aiutante di campo che ha seguito Napoleone a Sant’Elena, l’ex imperatore confida che sarebbe una fortuna se la sua carriera finisse ora, desidera sempre più la morte, che oggi come quando calcava i campi di battaglia, non ha mai temuto.
Il declino fisico è inarrestabile, tanto che il 13 aprile 1821 Napoleone decide di fare testamento.
Lascia i suoi averi a coloro che non l’hanno mai tradito, come alcuni servitori o fedelissimi generali. Al chirurgo Larrey, «l’uomo più virtuoso che abbia mai conosciuto» lascia ben 100.000 franchi. Alcuni giorni dopo, il 28 aprile, la situazione precipita.
Con un filo di voce Napoleone chiede ad Antommarchi di promettere che una volta morto, il suo cadavere non sia ispezionato da medici inglesi e che il suo cuore, debitamente conservato, sia portato a sua moglie Maria Luisa a Parma.
Tutto oramai è compiuto. Non resta che Atropo recida con le sue lucide cesoie il filo della sua vita. E quella morte tanto agognata, l’unica panacea a una sofferenza non più sopportabile, inesorabile arriva.
Napoleone spira alle 17.49 di sabato 5 maggio, dopo una lunga agonia, dilaniato da dolori sempre più forti al ventre.
Sarà seppellito, tre giorni dopo, nella vallée du Géranium, come richiesto dallo stesso ex imperatore. Sulla sua tomba non compare nessun epitaffio ma solo il suo nome, quello che aveva per decenni infervorato i suoi eserciti e intimorito i suoi nemici.
Dieci giorni dopo, il 19 maggio, Alessandro Manzoni, scriverà la sua celebre ode, quel 5 maggio, croce e delizia di milioni di studenti.
La causa della morte di Napoleone Bonaparte, come accertato da un’autopsia condotta il 6 maggio, è cancro allo stomaco, originato, probabilmente, da un’atavica forma di ulcera.
Fin da subito, tuttavia, si diffondono una ridda di ipotesi secondo le quali il còrso sarebbe morto per avvelenamento da arsenico, ma rimangono soltanto ipotesi, oltretutto mai avvalorate dalla scienza.
A proposito della morte Napoleone il 12 dicembre 1804, quando il suo astro ancora splendeva lucente, aveva detto:
«La morte non è niente. Ma vivere sconfitti e senza gloria significa morire ogni giorno.»
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