Cento anni fa, il 21 gennaio 1921, a Livorno, nel Teatro Goldoni, maturò l’ennesima scissione in seno al Partito socialista, la più amara, la più dura, anticamera alla nascita del Partito comunista.
Questa è la cronaca di quella scissione annunciata, epilogo inevitabile su cui gravò irrimediabilmente il peso di un protagonista assoluto: Vladimir Il’ič Ul’janov, per la storia Lenin.
I prodromi di una scissione annunciata
La narrazione della nascita del Partito comunista si inserisce in un contesto storico e politico ben definito, segnato da una guerra mondiale la cui eco è ancora udibile e, soprattutto, da una questione sociale ancora in fermento, caratterizzata dalle rivendicazioni di operai e contadini fatalmente esplose nel Bienno rosso e infrantesi in una rivoluzione mancata.
Un ambito marchiato dal ruolo troppo esitante di un partito, quello socialista, incapace di afferrare la guida di quelle masse sedotte dall’immagine della Russia e da quella rivoluzione che aveva portato il popolo a rovesciare l’autarchia zarista.
Al successo elettorale del 1919, caratterizzato dal 32% dei voti e da ben 156 deputati eletti (sono le stesse elezioni che segnano la disfatta di Mussolini e del suo neonato movimento dei Fasci), non corrisponde, però, un’unità interna e, soprattutto, un’univoca posizione rispetto al crescente disagio sociale.
Così lo storico Danilo Venerusio sui motivi della crisi economica e sociale che sfociano, poi, nel Bienno rosso:
Questi effetti internazionali, uniti al disagio sociale interno sempre più palpabile scoppiano nel corso del biennio 1920-1921, quando la rivoluzione sembra davvero alle porte. Le numerose occupazioni delle fabbriche da parte degli operai, che interessano tutt’Italia coinvolgendo più di mezzo milioni i lavoratori, così come le rivendicazioni dei contadini per delle terre solo promesse alla fine della guerra, sono l’essenza di quel movimento di protesta che è passato alla storia come il Bienno rosso.
Ma si tratta, alla fine dei giochi, quando i fuochi rivoluzionari si spengono per l’effetto delle politiche del redivivo Giolitti, chiamato nuovamente a guidare il governo, di una rivoluzione mancata, quasi gattopardesca. Il Biennio rosso, pur scuotendo il Paese, non lo intacca più di tanto, alla fine, come scrisse lo storico Paolo Spriano nel suo Sulla rivoluzione italiana. Socialisti e comunisti nella storia d’Italia si tratta di un fatto che attraversa l’Italia «senza approdare a un risultato» anche per colpa del Psi.
Il Partito socialista non coglie, infatti, la portata di quegli eventi ma soprattutto le conseguenze sociali e politiche che avrebbe potuto innescare in un senso o in un altro. Le innegabili esitazioni del Psi in un momento cruciale per la storia del proletariato italiano sono alla base della tragedia del socialismo italiano, come sintetizzò il grande storico Federico Chabod nel saggio L’Italia contemporanea (1918-1948).
Il Psi, infatti, nel corso del Biennio rosso rimane sostanzialmente nel guado, non decidendo né in un senso né nell’altro con il risultato di scontentare tutti.
La borghesia, specie quella più piccola, minacciata dalle rivendicazioni del proletariato che ritiene aizzate anche dai socialisti, guarda con sempre più favore a quel movimento fascista che rappresenta un valido e violento alleato per difendere rendite e posizioni consolidate.
Il proletariato, o almeno una parte di esso, rimane invece deluso dall’incapacità del Psi di guidare la protesta, facendola inevitabilmente sfociare nella rivoluzione. Proprio la netta opposizione dei capi storici socialisti, non solo i riformisti in verità, alla violenza come arma per ottenere il potere è una scelta politica che, pur basata su comprensibili ragioni sociali e storiche, frustra le aspirazioni di molti operai e contadini e di una parte di militanti, suggestionati dal mito sovietico, dall’esempio leninista della rivoluzione bolscevica.
Proprio la figura di Lenin peserà e non poco sul XVII congresso socialista, trasformandosi in un vero e proprio convitato di pietra nell’affollato Teatro Goldoni, la sede del più drammatico congresso nella storia di un partito che nei suoi ventinove anni di vita aveva già subito più di una scissione, amputazioni amare, eredità di quell’eterno e mai sanato dissidio fra riformisti e rivoluzionari.
In fin dei conti già in quel caldo 14 agosto 1892, quando nella sala dell’associazione garibaldina dei Carabinieri genovesi (unità militare che si era contraddistinta nel Risorgimento) si riunirono i primi socialisti, parole come scissione, rottura, erano vibrate con forza fra i congressisti, detonando nel bel mezzo dell’atto costitutivo di quello che inizialmente si chiamò Partito dei Lavoratori e che solo nel 1895, nel congresso di Parma, assunse la definitiva denominazione di Partito socialista italiano.
In quel giorno che anticipava il Ferragosto a essere cacciati furono gli anarchici, ospiti indesiderati per chi aveva scelto di arrivare all’affermazione del socialismo attraverso la via parlamentare, attraverso la democrazia.
Pochi anni dopo, nel 1912, a essere cacciati nel corso del congresso del Psi di Reggio Emilia, furono quei “gradualisti”, con in testa Bissolati, che la componente massimalista del partito, guidata dal giovane e ambizioso Benito Mussolini, riteneva troppo moderati, per nulla rivoluzionari, rei di aver appoggiato la guerra di Libia e di aver omaggiato il re dopo il fallito attentato che lo aveva visto involontario protagonista.
Questa storia turbolenta, fatta di scontri e fatali divisioni, sta per scrivere a Livorno il suo capitolo più intenso, quello senza dubbio più drammatico. Perché nella città toscana tutti sono consci che il Psi è giunto a un bivio: da una parte c’è la strada del comunismo, dall’altra, invece, quella del socialismo tradizionale, sospeso fra massimalismo e riformismo, tra pensiero e azione, due realtà minacciate da uno spettro chiamato scissione.
Da Livorno, comunque andranno le cose, uscirà un partito profondamente trasformato e il solco del dissidio tra le varie compenti socialiste sarà sempre più ampio.
Lo spartiacque tra i due gruppi è divenuto ormai incolmabile. A dare forza ai rivoluzionari, che dal 1919 si polarizzano intorno ai due progetti, non solo editoriali, di Ordine nuovo, fondato da Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Palmiro Togliatti e Umberto Terracini e della rivista Il Soviet del napoletano Amadeo Bordiga, ci sono due fatti incontrovertibili che minano la credibilità dall’interno del partito: la rivoluzione russa e il fallimento del Bienno rosso, due eventi strettamente connessi fra loro.
Il successo dei socialisti russi, almeno agli occhi della corrente più di sinistra del Psi, ha dimostrato che la rivoluzione è possibile ma per renderla effettiva serve una direzione adeguata e non quella emersa all’indomani del cocente fallimento del Bienno rosso.
Agli occhi della frazione comunista del partito socialista, costituitasi ufficialmente nel convegno di Imola del 28 e 29 novembre 1920, la direzione del partito, in quel fatidico momento, per dirla con le parole di Angelo Tasca, «ha perduto mesi interi a predicare la rivoluzione senza prevedere niente, senza preparare niente, perdendo un’occasione storica, quasi irripetibile.»
Il dado per i comunisti è tratto, specie ora che la loro posizione viene sostenuta con forza da uno che di rivoluzione e di comunismo se ne intende: Vladimir Il’ič Ul’janov, meglio noto come Lenin.
Il peso di Lenin sulla scissione di Livorno
Per la neonata frazione comunista Lenin è inevitabilmente un faro, un punto d’arrivo e al tempo stesso di partenza. Del padre della rivoluzione bolscevica i comunisti nostrani condividono non solo le strategie politiche ma anche l’idea di abbandonare il nome di partito socialista a favore di quello comunista, «È tempo di gettare via – come Lenin scrive in una lettera dell’aprile del 1917 – la camicia sudicia, è tempo di indossare una biancheria pulita.»
L’adesione al comunismo è per Gramsci e per la frazione imolese un’eventualità inevitabile. Il socialismo, almeno quello di Turati e dei suoi fedelissimi, è un concetto superato dagli eventi, per certi spetti archiviato dalla storia stessa. Per i comunisti è superato anche il socialismo dei massimalisti che sono la maggioranza all’interno del Psi e che di recente hanno appoggiato l’adesione del partito al Comintern, l’organizzazione internazionale che riunisce i partiti comunisti, fortemente voluta dai bolscevichi e sorta sulle ceneri della II Internazionale socialista, dissoltasi all’indomani della decisione di alcuni partiti socialisti, quello tedesco e francese, di appoggiare la guerra mondiale.
Ma proprio l’adesione al Comintern rappresenta una sorta di spada di Damocle per i socialisti italiani perché le condizioni per farne parte sono nette, inequivocabili e passano attraverso la totale accettazione dei “21 Punti” previsti da Lenin e soci che prevedono, fra l’altro, la totale esclusione per i riformisti e, inoltre, l’obbligo di mutare il nome del partito in comunista, una condizione non solo formale ma sostanziale.
Trasformarsi da socialisti a comunisti, infatti, equivale ad accettare la linea imposta da Mosca, senza infingimenti. Vuol dire accogliere la via rivoluzionaria in luogo di quella democratica per la conquista del potere da parte del proletariato; vuol dire espellere dai partiti socialisti, a qualsiasi latitudine, tutti i riformisti, i socialdemocratici; corrisponde ad occuparsi in modo univoco dell’organizzazione delle forze operaie sul piede di guerra, come scriverà Antonio Gramsci.
La trasformazione del Psi, dunque, in un partito comunista è un percorso a senso unico, almeno per la corrente comunista del partito socialista. Per Gramsci, Bordiga, Tasca, Togliatti e gli altri partecipanti al convegno di Imola l’evoluzione comunista è una strada che non ammette ripensamenti, pena la scissione.
Non esistono margini di manovra, nonostante gli appelli all’unità lanciati da Serrati, il direttore dell’Avanti, non ostile in linea di massima alle idee di Lenin ma convinto che in Italia e nel mondo capitalista non esistano ancora le condizioni per la rivoluzione e, soprattutto, dello storico leader socialista Turati, per il quale la dittatura del proletariato, tanto cara ai bolscevichi, è «preistoria del socialismo, rigatteria, vecchiume», non solo ma si tratta anche di una scelta suicida che uccide il socialismo, allontanando, al tempo stesso, la classe proletaria dalla rivoluzione.
Per questo tra i delegati socialisti che si apprestano a raggiungere Livorno «città portuale, complessa per vocazione, con una storia politica», come ricorda Ezio Mauro nel suo La dannazione. 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo, «in cui si mescolano anarchismo, umanitarismo socialista, ribellismo e pacifismo», la sensazione di un redde rationem è assoluta.
A Livorno, sede congressuale scelta dopo un avvincente ballottaggio con altre due città toscane, Firenze e Viareggio, il glorioso Partito socialista italiano o si trasformerà nel Partito comunista o subirà l’ennesima scissione, un’eventualità che grava nell’aria salmastra, nel vociare dei portuali, nelle analisi dei congressisti.
Il congresso di Livorno: la genesi del Partito comunista italiano
L’atmosfera a Livorno, fin dai giorni che precedono l’apertura del congresso, è febbrile. Il partito che è maggioritario in Italia è, al tempo stesso, una forza essenzialmente divisa fra la corrente massimalista, rivoluzionaria più a parole che nei fatti, quella riformista, ancorata ai padri storici del Psi e, infine, la neonata frazione comunista, minoritaria nei numeri ma in evidente ascesa.
I partecipanti e non solo, sono consapevoli che nella città toscana si sta per scrivere un pezzo di storia, per questo affluiscono decine di giornalisti e fanno la comparsa pure le cineprese che, per la prima volta, riprenderanno alcuni momenti di un congresso politico per consegnarli alla memoria.
A Livorno convergono anche migliaia fra carabinieri, soldati e guardie regie e numerosi agenti segreti, tutti lì con lo scopo precipuo di osservare e, soprattutto, evitare ogni possibile scontro, anche perché sul congresso socialista incombe il timore fascista, la possibilità che gruppi di squadristi possano dare ai delegati rossi il loro personale saluto.
La sensazione che sarà un congresso teso aleggia forte, palpabile nell’emiciclo del Teatro Goldoni dove, non tanto tempo prima, si era esibito un livornese doc, il musicista Pietro Mascagni. Ora, però, le note che risuonano sono ben altre, molto più gravi e decisamente più stonate.
Il 16 gennaio, il giorno dopo l’apertura ufficiale dell’assise socialista, sul palco del Goldoni sale Christo Stefanov Kabakčiev. Per molti dei presenti in sala non è un volto conosciuto ma a pesare è il suo ruolo. Kabakčiev non solo rappresenta il Komintern ma è, soprattutto, l’uomo di Lenin, autorizzato a esporre l’ortodossia comunista.
Il politico bulgaro nella sua relazione che espone in francese, opportunamente tradotta da un militante in sala, sottolinea la centralità di quel congresso sul quale, inevitabilmente, sono rivolti gli occhi dei proletari di tutto il mondo.
Parla di rivoluzione imminente, del ruolo di Mosca, dell’esempio dei compagni bolscevichi, evidenzia come i tempi siano maturi affinché la classe operaia rompa gli indugi per essere sapientemente guidata «verso lo scopo supremo: la conquista del potere politico e l’instaurazione della dittatura proletaria.»
Ma Kabakčiev dice anche di più. Pone in modo ineludibile il diktat di Lenin, ovvero la cacciata dal partito dei riformisti, per loro, nel futuro Partito comunista, non c’è spazio, «non vi è posto per un centro nella rivoluzione, il centro sarà spazzato via dall’uragano rivoluzionario.»
Il discorso infiamma molti ma non tutti, di certo non Giacinto Menotti Serrati, direttore dell’organo ufficiale del partito, “L’Avanti” e principalmente leader della frazione massimalista dei comunisti unitari divenuta maggioritaria nel congresso di Bologna dell’ottobre 1919, dove era stata votata l’adesione all’Internazionale Comunista.
A parlare oltre a Serrati, che Kabakčiev definisce un opportunista, è anche Adelchi Baratono, figura di spicco socialista e massimalista convinto. L’ex professore di filosofia di un giovane Sandro Pertini al Liceo di Savona, chiede ai sovietici di poter valutare autonomamente la situazione italiana «perché è un fatto nostro, di cui conosciamo cause, portata, effetti» perché l’Italia non è la Russia, Roma non è Mosca.
Ma sono appelli che si perdono nell’aria rarefatta del Teatro Goldoni in cui non riecheggia la voce di Antonio Gramsci. Il padre della teoria politica dei consigli di fabbrica, più volte accusato per il fallimento della stagione rivoluzionaria dell’occupazione delle fabbriche a Torino, preferisce astenersi, rimanere nell’ombra, nonostante sia stato più volte invocato dai comunisti presenti nel teatro a parlare, a esporre la sua posizione.
Parla, invece, Costantino Lazzari che strepita contro l’assurdità della scissione, sottolineando la sua ferma opposizione al cambio di nome che a suo dire non ha ragione di esistere, ma come Serrati e Baratono, è una vox clamantis in deserto, almeno in quello comunista, eccitato per il discorso dell’esponente bulgaro e sempre più proteso verso la, rottura, epilogo inequivocabile di una scissione annunciata.
E parla, ovviamente, anche Filippo Turati. Il padre del Partito socialista, che era presente in quel caldo 14 agosto 1892, ribadisce, come già in passato, la sua netta opposizione alla soluzione rivoluzionaria; per il vecchio leader riformista la strada maestra rimane quella democratica, la via vera, e la più breve, la via dell’evoluzione.
Per Turati l’eventuale scissione sarebbe l’ennesimo regalo alla destra, specie a quella nuova destra che si fa strada a colpi di manganello, intimorendo i nemici e strizzando l’occhio alla borghesia.
Turati si appella ancora all’unità, ricordando come «le classi che detengono il potere hanno più paura dell’azione legale del proletariato che dell’insurrezione» ma, come avrebbe detto anni dopo Aldo Moro dalla prigione delle Brigate rosse, «tutto è inutile quando non si vuole aprire la porta.»
E quella porta, oramai, è ben chiusa, di più, è sprangata.
Ormai i giochi sono fatti, il Rubicone è oltrepassato e gli appelli alla coesione avanzati dai massimalisti e dai riformisti sono respinti dai comunisti al mittente, d’altra parte la posizione di questi ultimi, sancita anche dal discorso di Bordiga che infiamma i suoi, è stata chiara fin dall’inizio o il Psi abbraccia in toto la pregiudiziale comunista oppure l’unica soluzione percorribile è quella dello strappo, della separazione, della nascita di un nuovo soggetto politico che sia rigorosamente comunista.
Una separazione dolorosa, ma assolutamente necessaria, inevitabile come rimarcato da Nicola Bombacci, uno dei comunisti presenti nell’agone del Goldoni che nel 1945 morirà fucilato a Dongo, accanto a Benito Mussolini.
La resa dei conti si materializza la mattina del 21 gennaio 1921 quando il presidente Bacci fornisce i risultati sulle tre mozioni messe ai voti. Sul tavolo si contrappongono la linea unitaria o “di Firenze” (i cui primi firmatari sono Baratono e Serrati), quella comunista o “di Imola” e, infine, quella concentrazionista o “di Reggio Emilia” riconducibile tra gli altri ai socialisti Baldesi e D’Aragona.
L’esito delle urne premia la mozione unitaria con 98.028 voti; al secondo posto si piazza quella comunista che ottiene ben 58.783, staccando nettamente la proposta concentrazionista, votata solo da 14.695 delegati.
Ai comunisti usciti sconfitti non rimane che la soluzione scissionista che si materializza poco dopo quando Gramsci e i compagni comunisti, intonando le note dell’Internazionale, lasciano il Teatro Goldoni per ritrovarsi in un altro teatro, il piccolo e vicino San Marco, lesionato dalla guerra e trasformato in un magazzino militare, un posto senza sedie e senza infissi, illuminato – come ricorda ancora Ezio Mauro – da quattro lampade montate in fretta.
In quel lacerto di teatro, dove i presenti si riparano sotto gli ombrelli dalla pioggia che penetra dal tetto sfondato, quello stesso 21 gennaio nasce il Partito comunista d’Italia, una soluzione scontata, ennesima ferita nell’universo della sinistra, ultimo atto dell’eterno conflitto tra riformisti e rivoluzionari, due facce, alla fine, di una medesima medaglia, accomunati, come amava ripetere, con ironica amarezza, Vittorio Foa, dalla sostanziale mancanza di differenze, perché i riformisti non fanno le riforme e i rivoluzionari, alla fine, non fanno la rivoluzione.
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