Alcide De Gasperi, più volte presidente del consiglio nonché indiscusso leader della Democrazia cristiana, fu, nel giugno del 1946, per una manciata di giorni, di fatto, presidente della neonata Repubblica italiana, visto che ricoprì, in quel mese fondamentale per le sorti del nostro Paese, le funzioni di capo provvisorio dello Stato.
Questo è il racconto di quei giorni travagliati che sancirono il passaggio dalla monarchia alla repubblica.
La nascita della Repubblica italiana e la nomina di De Gasperi come capo provvisorio dello Stato
Roma, 5 giugno 1946. Nel corso di un’affollatissima conferenza stampa il ministro dell’interno Giuseppe Romita annuncia la vittoria della Repubblica sulla Monarchia nel referendum svoltosi il 2 e 3 giugno.
Si tratta di responso attesissimo che dovrebbe mettere la parola fine su una vicenda, quella referendaria, che da più di un mese tiene con il fiato sospeso gli italiani.
L’Italia è una repubblica ma dalle urne è uscito un Paese largamente diviso, un esito, per certi aspetti, inatteso. Lo scarto fra i voti repubblicani e quelli monarchici, oltre due milioni, non fotografa la realtà referendaria. La geografia del voto, infatti, disegna un’Italia visibilmente spaccata in due.
Se nel Settentrione, con le eccezioni di Asti, Bergamo, Cuneo e Padova, a trionfare è la Repubblica, con oltre il 64% dei consensi, nel Meridione, invece, ad affermarsi è la Monarchia con il 64% dei voti, con picchi anche più alti, come in Campania, dove la percentuale a favore dei Savoia supera abbondantemente il 74%.
Il giorno dopo, giovedì 6 giugno, il “Corriere della Sera” titola a tutta pagina «È nata la Repubblica italiana» annunciando, inoltre, la prossima partenza del re dopo la consegna dei poteri a De Gasperi, come capo provvisorio del nuovo Stato.
Sembra che tutto vada verso una normale e pacifica transizione ma l’invito alla tregua nazionale, invocato sullo stesso quotidiano dal direttore Mario Borsa nelle ore successive alla conferenza stampa di Romita, non sembra essere totalmente accolto.
Il 7 giugno, in diverse città del Sud, si segnalano scontri fra monarchici, forze dell’ordine e supporter repubblicani. Una tensione crescente che a Napoli tocca l’apice.
Durante una manifestazione promossa dai monarchici nelle vie del centro, viene lanciata una bomba a mano in mezzo alla folla che provoca nove feriti e, soprattutto, un morto, un ragazzo, Ciro Martino.
Ad arroventare il clima ci si mette anche il ricorso presentato da un gruppo di giuristi padovani che contestano al ministro Romita la validità della vittoria della repubblica calcolata non, come previsto dall’articolo 2 del decreto luogotenenziale n° 98, sulla maggioranza dei votanti, bensì sulla maggioranza dei voti validi.
Ma i monarchici non si fermano lì. Tra i più decisi si fa largo anche l’idea di tenere un nuovo referendum, ipotesi,però, immediatamente scartata da tutti i leader politici.
Il re, nel frattempo, rimane al suo posto, in attesa del pronunciamento della Cassazione che in molti sperano sia definitivo.
La comunicazione dei dati da parte della Cassazione
Fa caldo nella Sala della Lupa dentro Montecitorio quel 10 giugno del 1946. Alle 18 in punto il presidente della Corte di Cassazione, Giuseppe Pagano, si alza in piedi per dare inizio a quella seduta tanto attesa. Con voce monocorde inizia a leggere, collegio per collegio, i voti attribuiti alla repubblica e alla monarchia. Le cifre riportate da Pagano non si distaccano molto da quelle indicate giorni prima da Romita. Poi, quando tutti si attendono la proclamazione della Repubblica, ecco la frase che raggela gli entusiasmi in quell’afosa giornata di giugno:
La parola definitiva sull’esito referendario non è arrivata. Se per i repubblicani il risultato non cambia, la vittoria nel referendum è fuori discussione, per i monarchici, invece, l’intervento di Pagano rinfocola la speranza, proprio quando stava per essere ammainato il vessillo sabaudo sul torrino del Quirinale.
Reazioni a parte, c’è una altra questione importante e riguarda il ruolo del re, ovvero se vada ancora considerato nel pieno esercizio delle sue funzioni o, al contrario, alla luce del verdetto referendario, seppur parziale, debba considerarsi decaduto.
Anche per questo, De Gasperi, al temine del pronunciamento della Corte, si reca al Quirinale per tentare di convincere il sovrano a nominarlo Luogotenente Generale del Re, almeno fino alla decisione finale della Corte di Cassazione.
Una proposta di buon senso, fatta per evitare lo scontro, che raccoglie il plauso di molti, compreso quello dell’ammiraglio Ellery Stone, in rappresentanza degli alleati; ma non quello del re, fermo nel suo proposito di attendere il definitivo responso della Cassazione, previsto per il 18 giugno.
Ma prima che cali la notte sulla giornata del 10 giugno c’è ancora un consiglio dei ministri da tenersi, convocato da De Gasperi proprio per decidere in merito al pronunciamento dei giudici.
Tra i vari ministri le divergenze sono evidenti. Dal decisionismo dei vari Bracci, Togliatti e Nenni, per i quali la vittoria repubblicana è netta e incontrovertibile e il passaggio dei poteri non può essere rimandato, si passa all’attendismo del liberale Cattani e del demolavorista Cervellotto per il quale, vista l’incompletezza dei risultati, sarebbe più «prudente non parlare per ora di Repubblica.»
La seduta del governo va avanti ma l’agognata unanimità non viene raggiunta. Dopo una breve sospensione, intorno alla mezzanotte il governo decide di emettere un comunicato nel quale si afferma che «la Repubblica è proclamata, che nessuno e nulla potrà far tornare indietro il popolo italiano da questa pronuncia e che il governo si rende garante della legalità del referendum.»
Alle questioni costituzionali si aggiunge anche la preoccupazione per l’ordine pubblico; il timore che ci possano essere dei nuovi scontri è palpabile.
I morti di via Medina, una strage che si poteva evitare
La non decisione della Corte di Cassazione, come temuto, dà fuoco alle polveri, alimentando, specie nel Meridione a maggioranza monarchica, il fuoco della protesta che, l’11 giugno conosce un’altra pagina ancora più drammatica.
Teatro di una strage che poteva e doveva essere evitata è, ancora una volta, Napoli. L’ex capitale borbonica vive una giornata da incubo, riproiettando scenari ormai dimenticati.
Sono da poco passate le 19 quando, da piazza Carlo III, dove si è tenuta una manifestazione monarchica, centinaia di persone si muovono alla volta di via Medina, sede di una sezione del Partito comunista. Qui, da un balcone posto al terzo piano, sventola il tricolore privo, però, dello stemma sabaudo.
Per i monarchici quell’atto è un’evidente provocazione che non deve passare. In via Medina dalle urla, quali «non vogliamo la repubblica nata nel sangue dei nostri giovani» o «fuori le vergogne comuniste», agli scontri il passo è breve.
Mario Fioretti, un giovane marinaio ma anche uno dei manifestanti più esagitati, si arrampica su dei tubi esterni del palazzo, con il solo obiettivo di afferrare il vessillo della discordia. Proprio quando sta per brandirlo, un proiettile sparato dall’interno della sezione comunista lo centra in pieno.
Fioretti cade in terra e subito dopo in via Medina accade l’inverosimile. Grida, scontri, tram ribaltati, lancio di oggetti, un caos che la polizia riesce a stento a contenere, anche perché, come scrive un redattore del quotidiano “La Voce” «la mancanza di direttive precise delle forze di polizia dava ai facinorosi la sensazione di una temporanea superiorità, ch’essi sfruttavano per tentare di impedire il passaggio delle autoblinde con un grosso tronco d’albero rovesciato nella strada, con una camionetta sottratta agli Alleati e incendiata, con due vetture tramviarie rovesciate.»
Quando la situazione, dopo diverso tempo, torna finalmente tranquilla, il responso è drammatico: 73 feriti e, soprattutto, 7 morti, tutti giovanissimi.
Attendere o agire? La scelta di Umberto II
Fin dalle primissime ore seguite ai primi risultati, la posizione assunta dal re Umberto II è quella di attendere, di non prendere alcuna decisione definitiva, forte di una precarietà del voto che non sancisce ancora la definitiva vittoria della Repubblica.
Per una parte dei monarchici l’imperativo è aspettare e, se le cose dovessero andare male, perfino, resistere. Qualcuno tra i militari più vicini al re sogna, addirittura, una vera e propria guerra civile con tanto di trasferimento di Umberto al Sud per guidare la resistenza monarchica.
Ma sono, per fortuna, voci isolate.
Dal Quirinale, tuttavia, il placet alla vittoria della Repubblica non arriva. Umberto si rifiuta di passare le funzioni di capo provvisorio dello Stato al presidente del consiglio, come previsto dalla legge che ha istituito il referendum. L’enigma sta tutto nell’interpretazione della frase «dal giorno della proclamazione dei risultati del referendum.» Per il re e i suoi consiglieri il pronunciamento del 10 giugno non equivale a una vera e propria proclamazione visto che ballano ancora i tanti ricorsi e soprattutto la vexata questio su voti validi e votanti.
Una matassa difficile da districare, una sconfitta per tutti come perfettamente sintetizzato dal questore di Torino, Giorgio Agosti, in una lettera a Lucilla Jervis:
In effetti quello che va in scena nelle ore successive alle dichiarazioni del presidente Pagano, è una pantomima che un Paese uscito devastato da vent’anni di regime e dalla peggiore delle guerre, decisamente non merita.
Umberto lascia l’Italia, De Gasperi è capo provvisorio dello Stato
La situazione, nonostante il passare dei giorni, non migliora, sebbene De Gasperi provi da una parte ad ammorbidire il re e dall’altra a tenere a bada alcuni suoi ministri favorevoli a un colpo di mano.
Il leader democristiano sa bene che la situazione è critica e che il sovrano, almeno fino a quando non abdica o non viene destituito, mantiene intatti i suoi poteri, ivi compreso quello di revocargli il mandato. Si tratterebbe, in questo caso, di un’ipotesi drammatica visto che, nella peggiore delle ipotesi, Umberto potrebbe dare vita a un governo a lui più fedele, con conseguenze sociali facilmente intuibili.
Per questo l’11 giugno, nell’ennesimo incontro, esorta il re a non prendere decisioni che potrebbero danneggiare la dinastia e la sua stessa reputazione.
Ma sono consigli che cadono nel vuoto.
Il 12 giugno sul tavolo di De Gasperi arriva una lettera di Umberto II con la quale il re ribadisce che rispetterà «il responso della maggioranza del popolo italiano espresso dagli elettori votanti, quale risulterà dagli accertamenti e dal giudizio della Corte Suprema di Cassazione, chiamata per legge a consacrarlo.»
Al netto dello stile affettato, è evidente come il sovrano non demorda, ribadendo, ancora una volta, la questione del voto espresso sulla scorta degli elettori votanti. Umberto a lasciare il Quirinale non ci pensa proprio, almeno fino al 18 giugno, quando la Corte di Cassazione dovrebbe finalmente pronunciarsi.
Una data che, nonostante manchi una manciata di giorni, appare troppo lontana.
De Gasperi dopo aver letto quella lettera decide di agire, il tempo dell’attesa è oramai finito. Dopo essersi consultato con alcuni giuristi, tra cui Petrilli, Sorrentino e Ruini, convoca il consiglio dei ministri, certo che l’errore della tesi monarchica stia principalmente nel ritenere che la proclamazione provvisoria dei risultati del referendum non sia idonea a produrre alcun effetto giuridico e che debba attendersi, invece, la proclamazione definitiva.
Nella notte tra il 12 e il 13 giugno il governo vota un ordine del giorno dalla valenza storica. Pur non proclamando ancora la Repubblica attribuisce al presidente del consiglio, come previsto dall’articolo 2 della legge del 16 marzo 1946, le funzioni di capo dello Stato.
Il dado è tratto, ora tutti gli occhi dei ministri, ivi compresi quelli di Cattani, l’unico a votare contro, sono rivolti al Quirinale per scrutare la decisione del re. E Umberto decide.
Il 13 giugno, alle 16.07, quello che la stampa aveva da tempo ribattezzato il “Re di maggio” lascia l’Italia dall’aeroporto romano di Ciampino, a bordo di un quadrimotore Savoia-Marchetti, alla volta di Lisbona, anche se, a causa del maltempo, quell’aereo sarà costretto a un atterraggio a Barcellona.
Alla sobrietà di quella partenza, in linea con lo stile che Umberto ha sempre adottato dalla sua ascesa al trono, si contrappone, tuttavia, il duro messaggio reale che l’agenzia Ansa diffonde in serata.
Nel proclama, probabilmente scritto anche da Edgardo Sogno, (anni dopo passato alle cronache per il cosiddetto “Golpe bianco”) si accusa espressamente il governo di aver agito sulla base di poteri «che non gli spettavano» ponendo il sovrano davanti all’alternativa di «provocare spargimento di sangue o di subire violenza» impasse superato con la scelta di partire alla volta del Portogallo.
Il 28 giugno la neonata Assemblea costituente, votata nelle medesime giornate referendarie, elegge con 396 voti su 501 votanti Enrico De Nicola capo provvisorio dello Stato.
Il 1° luglio il giurista campano, che al referendum aveva votato Monarchia, assume ufficialmente la carica mettendo fine alla brevissima esperienza di Alcide De Gasperi come capo provvisorio dello Stato italiano.
Sulla nascita della repubblica Piero Calamandrei pronunciò parole bellissime:
«Mai nella storia è avvenuto, né mai ancora avverrà che una repubblica sia stata proclamata per libera scelta di popolo mentre era ancora sul trono il re»