Cirra, oggi è un piccolo villaggio di poco più di mille abitanti, situato nella Focide, regione della Grecia centrale.
Un luogo ameno, i cui ritmi sono perlopiù dettati dal vicino mare e dal celebre golfo di Corinto, ma c’è stato un tempo in cui il nome di Cirra fu ben più famoso, decantato dalla storia antica, quella imparata sui banchi di scuola.
Cirra, infatti, fu una delle più rinomate città greche, famosa per le sue alte mura che cingevano in un abbraccio possente un luogo praticamente inattaccabile. Questa è la storia di Cirra e di come fu espugnata grazie a una pianta, l’elleboro, dagli effetti esiziali.
Storia di Cirra: il controllo su Delfi
Per chi voleva accedere dal golfo di Corinto a Delfi e al celebre santuario edificato in onore del dio Apollo, Cirra era una tappa inevitabile e molto spesso, a conti fatti, decisamente indigesta. Per gli abitanti di quella inespugnabile città, la vicinanza al tempio di Delfi rappresentava una fortuna inimmaginabile, inesauribile fonte di ricchezza figlia, però, di azioni molto spesso poco lecite, condotte a danno dei tantissimi pellegrini che affluivano a Delfi.
I tanti viaggiatori, il più delle volte, venivano depredati dei loro averi, ricchezze che andavano a rimpolpare le casse di Cirra. Ma gli atti criminosi ai danni del tempio di Apollo non si esaurivano ai soli furti, prevedendo anche l’annessione sistematica e illegittima di molti terreni prospicenti il tempio o l’imposizione di odiose e ingiuste gabelle ai vicini confinanti.
Simili atteggiamenti, oltretutto reiterati, non poterono essere tollerati a lungo, persino in una Grecia notoriamente divisa capace, però, di ritrovare nello sport e soprattutto nella religione una straordinaria unità, specie quando a essere intaccata era la sacralità di Delfi, probabilmente il luogo più venerato tra i greci.
Storia di Cirra: il santuario di Delfi e il ruolo della Pizia
Collocato su una altura ai piedi del monte Parnaso, con un suggestivo affaccio sul Golfo di Corinto, il santuario di Delfi, insieme a quelli di Delo e di Olimpia, rappresentava il luogo religioso più importante di tutta la Grecia.
Tutta la storia dell’antichità classica si legava a quel tempio dedicato ad Apollo che rendeva la città di Delfi (il cui nome derivava dalla forma di delfino che assunse Apollo proprio prima di prendere possesso del tempio che già esisteva e che era dedicato alla dea Gea) uno dei luoghi più sacri del mondo allora conosciuto.
A Delfi, chiamato anche l’ombelico del mondo, giungevano da ogni parte del globo. Erano persone di ogni ceto, età e sesso. Giovani o vecchi, ricchi o poveri, comuni cittadini o sovrani, poco importava, ognuno metteva piede a Delfi solo e soltanto per poter provare a consultare l’oracolo e ottenere il responso tanto agognato.
A rispondere, a interpretare, cioè, il volere del dio Apollo, era la Pizia, la figura centrale di tutto il tempio. Consacrata ad Apollo, la Pizia era una donna che presentava alcune caratteristiche ben precise. Doveva essere vergine, nativa di Delfi e, infine, di buona famiglia anche se, non necessariamente di nobile stirpe.
In origine la prescelta era necessariamente una giovane ma con il passare del tempo la questione anagrafica divenne secondaria, al contrario dell’irreprensibilità della favorita, condizione assolutamente imprescindibile.
A proposito della anima della Pizia, Plutarco, nel suo Sugli oracoli di Pizia, scrisse come questa, accogliendo la parola del dio, dovesse essere il più possibile pura.
Alle origini del tempio la Pizia officiava il suo ministero una sola volta l’anno, il settimo giorno del mese delfico di Bysios, la data che ricordava la nascita di Apollo.
Poi, la crescente fama del santuario e l’incremento esponenziale di devoti alla ricerca di un responso, resero necessario non solo l’ampliamento dei giorni dedicati alla consultazione ma anche del numero delle Pizie che in specifici momenti furono addirittura tre.
Storia di Cirra: la cerimonia dell’oracolo, un’indecifrabile risposta
Non tutti i postulanti, in realtà, venivano ammessi alla consultazione dell’oracolo. Ai sacerdoti, figure subordinate alla Pizia, spettava il compito di operare una rigorosa selezione fra la moltitudine di fedeli che giungevano da ogni parte a Delfi.
La selezione ufficialmente veniva effettuata sulla base dei quesiti avanzati ma, non di rado, era condizionata anche da motivazioni meno nobili, quali, ad esempio il rango dei fedeli o la cospicuità delle offerte da versare.
La decisione dei sacerdoti, pur inoppugnabile, creava numerosi malumori tra gli estromessi, persone che, in taluni casi, avevano compiuto viaggi molto impegnativi pur di arrivare al cospetto di Apollo.
I prescelti, invece, dopo i sacrifici di rito e il versamento di un rilevante obolo, venivano condotti nella parte più sacra del santuario, in quella camera inaccessibile ai più, un luogo sotterraneo, scavato nella roccia, dove, finalmente, ricevano l’agognato vaticinio che, però, il più delle volte, appariva di difficile interpretazione.
La Pizia, infatti, in una vera e propria forma di estasi, secondo alcuni dettata dall’esalazione di gas provenienti dalle fenditure della roccia o dall’assunzione di particolari sostanze allucinogene, pronunciava, assisa su un tripode, non prima di aver bevuto dell’acqua sacra e aver masticato delle foglie d’alloro (la pianta sacra ad Apollo) l’atteso responso, il più delle volte, del tutto incomprensibile.
Spettava ai sacerdoti il non semplice compito di tradurre in parole più comprensibili, l’oscura divinazione ma, il più delle volte, il responso, pur depurato dalla sinergica azione sacerdotale, risultava ancora poco chiaro o, comunque, insoddisfacente.
Salvo casi rarissimi, i postulanti ottenevano risposte criptiche che lasciavano adito a svariate interpretazioni, un ingegnoso stratagemma che rendeva l’Oracolo di Delfi praticamente inattaccabile, risultando, alla fine, sempre corretto.
Le richieste avanzate alla Pizia erano svariate, molte, tuttavia, erano legate alla fondazione di una città, come nel caso di Siracusa o Crotone, due tra le più celebri colonie della Magna Grecia.
La guerra sacra contro Cirra
Il santuario di Delfi, era, dunque, un luogo sacro, ragion per cui le reiterate azioni compiute dagli abitanti di Cirra ai danni dei fedeli divennero, a un certo punto, non più tollerabili.
Per questo nel 595 a.C. l’anfizionia delfica, ovvero l’organizzazione che racchiudeva molte città della Grecia, tra cui Atene, Sparta, Tebe ed altre, nata per tutelare l’antico tempio apollineo, decise di intervenire e muovere guerra a Cirra, dando vita alla cosiddetta Prima guerra sacra.
A guidare l’assedio fu Clistine di Sicione, la cui preparazione militare fu ritenuta, fin da subito, perfetta per quella che si prospettava come una guerra non semplice e soprattutto non breve, vista la bellicosità del popolo cirrese e la saldezza delle linee difensive di cui era dotata la città.
Clistene agì occupando, innanzitutto, il vicino porto, un luogo assolutamente strategico per Cirra. Poi si concentrò sull’assedio vero e proprio che, tuttavia, risultò fin da subito estremamente complesso. La città della Focide, infatti, era tornita da alte e possenti mura che la rendevano praticamente imprendibile. Bisognava trovare un altro modo per vincere l’indomita resistenza cirrese e avere la meglio sulla città.
A far capitolare la pugnace resistenza sarebbe stato l’intervento sull’acquedotto cittadino; la città, in buona sostanza, sarebbe stata presa per sete ma in un modo ancor più astuto rispetto alla semplice interruzione del flusso idrico.
L’acqua che scorreva nelle tubature cittadine non sarebbe stata interrotta ma avvelenata.
Sulle modalità del veneficio e sulla paternità dell’azione, le fonti antiche divergono, coincidendo, tuttavia, sul risultato finale: la resa di Cirra. La versione più antica è quella legata a Tessalo, uno dei presunti figli di Ippocrate, il padre della medicina moderna. Questi narra che un tal Nebro, anch’egli medico, dopo aver accidentalmente scoperto un condotto dell’acqua che alimentava la città di Cirra, decise di introdurvi del potente veleno.
Per Giulio Sesto Frontino, scrittore romano del I secolo d.C., fu invece Clistene a far rompere i tubi e a ricollegarli dopo aver avvelenato il prezioso contenuto.
Stando, infine, allo storico greco Pausania, il merito dell’azione spettò a Solone, il celebre politico e giurista ateniese, legato a una celebre riforma che abrogò le odiosissime leggi imposte in precedenza da Dracone.
Pausania racconta la vicenda, sottolineando come dopo che i soldati bevvero l’acqua avvelenata «dovettero abbandonare il posto afflitti da una diarrea incontenibili.»
Non solo una fastidiosissima dissenteria ma nei casi più gravi anche spasmi, convulsioni, asfissia e, nella peggiore delle ipotesi, la morte per arresto cardiaco.
La causa di tutto ciò fu una pianta, e su questo tutte le fonti concordano, apparentemente innocua a prima vista ma capace di effetti esiziali. Stiamo parlando dell’elleboro, aggiunta in quantità notevoli nelle tubature cittadine di Cirra.
Ecco come Erika Maderna, nel suo Per virtù d’erbe e d’incanti. La medicina delle streghe, nel ricordare come l’elleboro nero, sia una pianta altamente tossica, ne descrive anche i diversi usi in passato, sottolineando, tuttavia, la reputazione di pianta sacra e liturgica.
Sacralità o meno dell’elleboro, l’effetto su Cirra fu fatale. La popolazione annientata dagli effetti nefasti di quella pianta che si raccontava fosse custodita da un’aquila, e presa dai morsi della sete, si arrese.
La guerra era finita e Cirra pagava, nel peggiore dei modi, l’aver violato la religiosità di Delfi.