Dal 1865 al 1871 Firenze fu capitale del Regno d’Italia. La città che diede i natali a Dante Alighieri, culla del Rinascimento, scrigno di rara bellezza, fu per sei anni la capitale del giovane stato italiano, un’esperienza che seppur brevissima, incise e non poco sulla città toscana.
Questa è la storia di Firenze capitale d’Italia; questo è il racconto di una capitale temporanea.
Firenze capitale d’Italia, il ruolo della Convenzione di settembre
La decisione di spostare la capitale italiana da Torino, da sempre simbolo della dinastia dei Savoia a un’altra città dello Stivale, viene presa nell’ambito della Convenzione di settembre, l’accordo bilaterale italo-francese firmato il 15 settembre 1864 a Fontainebleau, località nota per la sua rigogliosa foresta e scelta come residenza da molti sovrani e, soprattutto, da Napoleone Bonaparte.
A corollario della Convenzione, con la quale il Regno d’Italia si impegna a non attaccare lo Stato pontificio, mentre la Francia di Napoleone III garantisce il ritiro delle sue truppe dai confini papali entro due anni, c’è un protocollo aggiuntivo che, nelle intenzioni dei firmatari, dovrebbe, almeno inizialmente, rimanere segreto. L’ accordo stabilisce che la capitale sarà spostata da Torino a un’altra città, da scegliere in un secondo momento.
Non si tratta di una postilla qualsiasi ma di un accordo vincolante, visto che la Convenzione diviene esecutiva solo dopo l’avvenuto trasferimento, da effettuarsi, oltretutto, entro e non oltre sei mesi dalla stipula dell’accordo.
Accantonata la Convenzione che, beninteso non tranquillizza più di tanto papa Pio IX, la politica italiana si mette subito all’opera per trovare la città più giusta dove trasferire la capitale.
La scelta viene affidata a una specifica commissione, formata esclusivamente da generali che, dopo aver valutato varie città, opta, alla fine, su Firenze. A far pendere l’ago della bilancia sull’Atene italiana, più dell’indubbio prestigio e della rinomata bellezza, è la sua posizione geografica.
La città toscana per i pragmatici militari rappresenta la soluzione strategicamente ideale. La sua collocazione al centro dell’Italia, la lontananza dai confini nazionali e soprattutto dal mare, motivo che ha fatto rapidamente decadere la candidatura di Napoli, scartata anche per ragioni politiche, rende Firenze un luogo sicuro, perfetto per ospitare le massime autorità politiche e militari.
D’altra parte, ancor prima della stessa Convenzione, nei palazzi del potere la possibilità di trasferire la capitale fuori da Torino è stata già presa in considerazione, specie in previsione di una probabile guerra contro gli austriaci nell’ambito del piano di completamento dell’unità nazionale.
Uno dei fautori dello spostamento della capitale, ancora prima della Convenzione di Settembre, di cui sarà un protagonista, è il diplomatico italiano Gioacchino Pepoli. Questi, in uno scritto al presidente del consiglio, Marco Minghetti, all’indomani di un colloquio preliminare con i francesi, tenutosi a Fontainebleau il 21 giugno 1864, due mesi prima della Convenzione, a proposito di un possibile trasferimento della capitale da Torino a una altra città, così si esprime:
La scelta su Firenze, presa dalla commissione militare, appaga e non poco i francesi, fermamente convinti che con la creazione di una nuova capitale gli italiani rinunceranno, definitivamente, all’idea di conquistare Roma, la città del papa, quella Roma che Cavour, nel discorso del 25 marzo 1861 per l’inaugurazione del parlamento italiano, aveva definito «la sola città d’Italia destinata a essere la capitale di un grande stato.»
Ma si tratta di un abbaglio perché, come ricorda lo storico Vittorio Vidotto nel suo 20 settembre 1870 «gli italiani pensano che Firenze sia una tappa di avvicinamento a Roma da ottenere, in futuro, con nuovi negoziati.» Insomma, al netto del trasferimento della capitale da Torino a Firenze la Questione romana non è stata affatto accantonata.
Firenze diventa capitale d’Italia, la reazione dei torinesi
Lo spostamento della capitale, in teoria segretissimo, è, in realtà, un segreto di Pulcinella che lesto si fa strada fra le piazze e i vicoli di Torino e pochi giorni dopo la firma della Convezione, la notizia già campeggia sui principali giornali torinesi.
La reazione della cittadinanza è immediata; nessuno accetta il declassamento di Torino, a maggior ragione ora che è la capitale del Regno d’Italia. Già dal 20 settembre la replica dei torinesi diviene palpabile. Per le vie di Torino cortei spontanei sfilano al grido di Abbasso il ministero! Roma o Torino! Abbasso la convenzione! Viva Garibaldi! Nei giorni successivi la protesta non solo non si sgonfia ma si invigorisce, toccando l’apice il 22 settembre.
Nel giorno di San Maurizio, ricorrenza cara ai torinesi, la popolazione scende nuovamente in piazza per manifestare la netta opposizione al progetto di Firenze capitale. La gente si raduna in piazza Castello prima e piazza San Carlo poi. L’umore dei torinesi è nero, ma la voglia di opporsi è tanta.
La risposta delle forze dell’ordine è immediata e, purtroppo, violentissima. Al termine degli scontri si contano ben 59 morti e 187 feriti fra dimostranti e carabinieri. La tensione, all’indomani di quella che passerà alla storia come la Strage di Torino, è alle stelle e le conseguenze politiche sono immediate e pesanti.
Il presidente del consiglio Marco Minghetti, caldamente incoraggiato dallo stesso sovrano, si dimette, sostituito dal generale Alfonso La Marmora, già presidente del consiglio nella Torino preunitaria.
Il cambio politico, tuttavia, non muta lo stato dell’arte. Il trasferimento della capitale a Firenze è una scelta irreversibile, un viaggio di sola andata che non prevede neppure soste intermedie.
Il fuoco della protesta, seppur in modo più attenuato, si riaccende il giorno di Capodanno, quando la tradizionale festa di gala si trasforma in una nuova protesta dei torinesi che, radunatisi sotto le finestre del Teatro Regio, danno vita a un fitto lancio di pietre.
La scena si ripete, più o meno invariata, il 30 gennaio, in occasione del tradizionale ballo di Carnevale. Questa volta oggetto del dissenso è Palazzo Reale, dentro il quale si muove un sempre più agitato Vittorio Emanuele, perplesso per una decisione che, seppur avallata, non ha mai del tutto condiviso. Ma indietro non si torna e la partenza per Firenze è sempre più prossima.
Firenze finalmente capitale d’Italia, la città si rifà il look
Il 3 febbraio 1865, alle 22.30 in punto, Vittorio Emanuele fa il suo ufficiale ingresso nella Firenze eletta nuova capitale d’Italia. Ad accogliere il sovrano, in un tripudio di tricolori, ci sono tutte le autorità cittadine, ivi compreso lo storico e senatore Gino Capponi.
Il re, nonostante i festeggiamenti, non sembra proprio a suo agio; d’altra parte la rinuncia alla sua Torino è una ferita difficile da cauterizzare. Ma non è l’unico a non essere entusiasta.
La scelta di Firenze capitale, oltre a lasciare perplessa parte della Sinistra, ha suscitato la ficcante critica di Bettino Ricasoli. Il più volte ministro, succeduto a Cavour dopo la sua improvvisa morte, paragona la decisione di Firenze capitale d’Italia a «una tazza di veleno che ci tocca sorbire.» L’ex presidente del consiglio, che di Firenze è stato anche sindaco, si fa portavoce dello scarso entusiasmo di molti fiorentini, preoccupati che la città possa esserne stravolta, perdendo, in tal modo, il suo plurisecolare volto per cui è celebre, da sempre, in tutto il mondo.
Alla lunga fila degli scontenti, tra cui si contano anche molti imprenditori piemontesi, allarmati per le ripercussioni economiche della transizione, si accoda anche Giuseppe Garibaldi. Per l’Eroe dei due mondi quella decisione politica tradisce la promessa fatta nel marzo del 1861, quando tutte le forze politiche avevano convenuto sull’unicità di Roma come capitale d’Italia.
L’attenzione, tuttavia, quel 3 febbraio, al netto delle posizioni in seno a questa storica scelta, è tutta per Firenze, da mesi al centro di un vibrante piano urbanistico, firmato dall’architetto Giuseppe Poggi, a cui il consiglio comunale fiorentino affida l’incarico di ridisegnare in vista del trasferimento della capitale il volto di Firenze.
Per l’architetto toscano si tratta di una sfida affascinante, specie per uno che da tempo studia le architetture urbane, in particolar quelle delle grandi capitali europee, visitate nel 1845, in occasione di una sorta di grand tour . Vienna, Parigi, Londra, Losanna, oltre che Roma e Venezia, sono le tappe del viaggio intrapreso da Poggi per conoscere da vicino le soluzioni urbanistiche e architettoniche adottate in quelle città.
Così Attilio Brilli, esperto di letteratura di viaggio, sul programma di lavori straordinari che coinvolge la nuova capitale:
Il profilo plurisecolare della città muta rapidamente. A farne le spese sono, in particolare, le mura medievali, il golden ring tanto amato dai turisti inglesi che, sotto l’effetto delle mine della Florence Land & Public Works Company, viene giù come un castello di sabbia.
A Firenze si aprono grandi viali, sul modello dei boulevard parigini di haussmaniana memoria; si abbattono edifici ammalorati, vengono progettati grandi parchi e ampi giardini, un turbinio di lavori che attira sulla città l’interesse di palazzinari e banchieri, ingolositi da quella incredibile quantità di denaro.
Firenze non cambia solo volto ma anche stile. Diventa, come nota Fedor Dostoevskij, uno dei suoi ammiratori più fedeli, una città «rumorosa e variopinta» dove la vita è diventata «parecchio più cara di prima.»
La nuova capitale cresce non solo in superficie ma anche in popolazione. Nel periodo che va dal 1865 al 1871, quando calerà definitivamente il sipario su quella capitale temporanea, l’incremento demografico è impressionante, pari al 58%.
Nella città toscana arrivano lavoratori da ogni parte dello Stivale. A ingrossare la popolazione di Firenze che prima di diventare capitale contava 118.000 anime, sono anche i burocrati piemontesi che lasciano, non senza remore, l’amata Torino, quegli stessi funzionari che, sul finire del 1871, rifaranno le valigie alla volta di Roma, la nuova e definitiva capitale d’Italia.
Le reazioni alle trasformazioni urbanistiche che interessano Firenze in quegli anni sono variegate. Se molti uomini di cultura, non solo italiani ma anche stranieri, condannano, senza appello, quei colossali progetti che stravolgono per sempre il profilo di una città meravigliosa, la classe media fiorentina, invece, guarda con curiosità l’ampliamento della città.
Questa, infatti, vede nei progetti di espansione della città, come sottolineato da Attilio Brilli, «una maniera per adeguarsi ai modi di vita europei, favorendo la separazione fra attività lavorative di carattere impiegatizio, tradizionalmente poste nel centro storico, e i nuovi quartieri residenziali dislocati in zone periferiche».
Uno dei più solerti oppositori di Firenze capitale è Carlo Collodi. Il papà di Pinocchio non è tanto contrario allo spostamento della capitale da Torino a Firenze, quanto al carattere temporaneo della decisione che lascerà in eredità più disastri che benefici; vaticinio azzeccato, visto che sarà di oltre duecento milioni il debito gravante sulle spalle dei fiorentini all’indomani dello spostamento della capitale da Firenze a Roma.
Sulla scia dei poco entusiasti si colloca anche il politico Leopoldo Galeotti; pesciatino di nascita ma fiorentino di adozione Galeotti, come ricorda Giovanni Spadolini nel suo Firenze capitale, teme che Firenze possa essere sciupata da quell’improvvida decisione.
La topografia del potere, i palazzi della nuova Firenze capitale
Oltre a una città da ridisegnare c’è anche una capitale da preparare per ospitare, nel miglior modo possibile, le istituzioni, dal re ai parlamentari, passando, ovviamente, per i diversi ministeri. La politica, in tutte le sue più articolate declinazioni, deve trovare, piuttosto urgentemente, una casa.
Il re va a vivere a Palazzo Pitti, la maestosa residenza che il banchiere Luca Pitti si era fatto costruire a partire dal 1458.
Si tratta di una scelta che convince fin da subito il sovrano che apprezza la posizione decisamente defilata. Quella reggia, che si trova nella zona di Oltrarno, gli permette maggiore libertà per andare a trovare la sua storica amante, Rosa Vercellana, la bella Rosina, alloggiata presso la Petraia, una delle più belle ville medicee, con quella posizione incantevole nella zona collinare di Firenze.
Tra i fiorentini e quel re burbero, dai modo poco raffinati, più simile a un soldato che a un sovrano, si instaura, fin da subito, un rapporto di sincera ammirazione. Firenze, come scrisse Ugo Pesci nel suo Firenze capitale :
Sistemato il re, c’è da trovare una giusta sede per le diverse istituzioni. Il Senato viene ospitato nei prestigiosi spazi degli Uffizi, la Camera dei deputati, invece, è collocata in Palazzo Vecchio, nel magnifico Salone dei Cinquecento, dove, per volontà di Pier Soderini si erano sfidati due geni assoluti come Michelangelo Buonarroti e Leonardo da Vinci. Sempre in Palazzo Vecchio trova sede il ministero degli Affari esteri, mentre quello degli Interni, al pari della Presidenza del Consiglio, approda nelle cinquecentesche sale di Palazzo Medici Riccardi.
Per quanto riguarda gli altri dicasteri la dislocazione è quanto mai diversificata. Quello dei Lavori pubblici finisce dentro il convento di Santa Maria Novella; collocazione simile a quella del ministero della Marina ospitato nell’antico convento dei Barbetti; mentre quello di Grazia e Giustizia viene alloggiato in Palazzo Da Cepparello, la residenza fatta costruire a metà Quattrocento da Jacopo Salviati, il marito di Lucrezia de’ Medici.
Ma c’è un posto su tutti che diventa politicamente il più rilevante. Si tratta dell’Hotel Parlamento, oggi il Bernini Palace, che, negli anni di Firenze capitale, come ricorda ancora Attilio Brilli, diviene «luogo di incontro di deputati e senatori che nelle sue sale spaziose predisponevano gli interventi che avrebbero discusso in Palazzo Vecchio e negli Uffizi.»
Tra i diversi ambienti dell’albergo uno fra tutti è il preferito, la sala delle colazioni, dove vengono stilati alcuni fra gli atti più importanti del giovane regno italiano.
Cala il sipario sulla «bella ed ospitale Firenze», la capitale provvisoria
La parabola di Firenze capitale, nel corso dell’estate 1870, sta per concludersi. Decisiva, in tal senso, è ancora la grande storia, quella in scena sui terreni polverosi di Sedan, dove, tra il 31 agosto e il 2 settembre 1870, le truppe di Napoleone III vengono sconfitte da quelle prussiane, facendo eclissare il vessillo imperiale francese.
La caduta di Napoleone III mette fine alla protezione imperiale al papa che, all’indomani di Sedan, vede il suo piccolo stato sempre più minacciato; la conquista di Roma da parte delle truppe italiane è un evento ormai prossimo. Il 20 settembre 1870 le truppe italiane entrano nella città di Pio IX, Roma è finalmente italiana e sul tavolo della politica fa la sua comparsa la questione della nuova capitale.
Il 23 dicembre 1870 la Camera dei deputati approva la legge sul trasferimento della capitale da Firenze a Roma, da attuarsi entro il termine perentorio di ei mesi.
Più complessa l’approvazione della legge al Senato dove non mancano le voci critiche, specie riguardo ai tempi e alle modalità del trasferimento.
Tra i senatori quello che spinge maggiormente sul freno è il lombardo Stefano Jacini che, in un discorso pronunciato il 23 gennaio 1871, elenca i motivi per cui sarebbe opportuno lasciare la capitale a Firenze. Il senatore parla della salubrità del clima fiorentino, decisamente migliore rispetto a quello capitolino e della posizione geografica di Firenze, perfetto raccordo tra l’Italia settentrionale a quella meridionale, molto più di Roma che, a suo avviso, «s’accosta troppo al mezzogiorno.»
Ma il politico, originario della provincia di Cremona va anche oltre, arrivando a contestare il dogma stesso di Roma capitale, definendola «un’idea da antiquari adottata dai patrioti e dai liberali in buona fede, ma senza rendersene ben ragione»; un’idea che potrebbe essere superata mantenendo la capitale effettiva a Firenze e conferendo a Roma il ruolo di capitale onoraria, la quinta ideale per manifestazioni solenni quali l’incoronazione del re.
L’accorato appello di Jacini convince pochi senatori e alla fine anche al Senato la legge sullo spostamento della capitale ottiene il via libera, seppur senza l’unanimità sperata.
Il 3 febbraio 1871, a sei anni esatti dall’ingresso festoso di Vittorio Emanuele in Firenze, Roma è dichiarata capitale d’Italia.
L’abbandono di Firenze da parte delle istituzioni sarà, tuttavia, un processo piuttosto lento, anche per la resistenza da parte di alcuni uomini politici, in primis lo stesso re, dispiaciuto di lasciare una città che aveva imparato ad amare.
Nel congedarsi Vittorio Emanuele raccomanda al sindaco , Ubaldino Peruzzi, di portare a tutti i fiorentini il suo saluto, sottolineando come mai avrebbe dimenticato per tutta la sua vita «la bella ed ospitale Firenze.»