Timeo Danaos et dona ferentes è molto probabilmente una delle frasi più note dell’Eneide di Virgilio e a pronunciarla fu Laocoonte, la cui tragica vicenda fu una delle più drammatiche che la mitologia antica ci abbia tramandato.
Questo è il racconto di Laocoonte e del suo monito inascoltato.
Il cavallo di Troia, l’inganno ingegnoso che fu la rovina dei troiani
La storia di Laocoonte, quella del suo inesaudito avvertimento, della sua tragica morte e di quella dei suoi figli, oltre che nella Distruzione di Ilio, da cui Sofocle trasse il suo Laocoonte e nei Posthomerica di Quinto di Smirne, sono notoriamente narrate nel secondo libro dell’Eneide, il poema in versi che Publio Virgilio Marone scrisse tra il 29 e il 19 a.C., componimento epico che tracciò la mitica origine di Roma.
La voce di quella tragica storia è raccontata direttamente dal protagonista del poema virgiliano, quell’Enea che al cospetto della regina di Cartagine, la bella Didone, accetta di ripercorrere quei dolorosi fatti, rinnovando quell’indicibile sofferenza, nonché l’ingegnoso inganno ordito dai greci, causa prima della fine dei troiani.
La lunga guerra di Troia dopo quasi un decennio latita sui polverosi campi battaglia dove gli eroi di entrambi gli schieramenti si combattono, ormai esausti, senza intravedere la vittoria anelata.
In particolare, a essere sfiniti sono i greci che, come narra Virgilio, sfiancati dalla guerra e respinti dagli dei, per divina arte di Pallade costruiscono un cavallo a misura di monte e ne intessono i fianchi di abete, all’interno del quale entrano i soldati greci, tra cui l’astuto Ulisse, uno degli ideatori di quel portentoso inganno.
Il cavallo viene lasciato sulla spiaggia di Troia, inerme e bellissimo nella sua lignea maestosità. La voce di quel curioso manufatto corre rapida tra i troiani che, lasciata in massa la città, si portano a riva, ammirando increduli quel manufatto colossale.
Dei greci, di quei soldati minacciosi che da anni tengono testa all’esercito troiano, su quell’arenile non vi è traccia. Tutto, incredibilmente, tace.
Lo stridio delle armi è un ricordo lontano come il luccichio delle armature sfavillanti illuminate dal sole abbacinante. La pace, dopo un decennio di inferno, sembra nuovamente essere tornata a regnare e quella spiaggia silente è la più evidente testimonianza. C’è solo quel cavallo e null’altro.
Lo stupore scema rapidamente e come una brezza sferza i volti di coloro che su quel tratto di costa iniziano davvero a credere che i greci si siano partiti con il vento diretti a Micene, ritirandosi dal campo di battaglia, scappando per sempre.
L’iniziale sorpresa, plasticamente resa da quell’innaturale silenzio, lascia spazio alla gioia per la guerra finita. Il disorientamento al cospetto di quel cavallo si tramuta in umana curiosità e in molti cominciano a credere che non sia altro che un generoso regalo di Atena.
Timete, fratello del re Priamo, propone ai suoi concittadini di introdurlo tra le mura e a collocarlo sulla rocca. Capi, invece, il nobile troiano che in seguito stando al racconto virgiliano fonderà la città di Capua, è decisamente sospettoso. A suo avviso quell’oggetto gigantesco potrebbe essere un tranello tessuto dai greci, per questo suggerisce di gettarlo in mare o, ancor meglio, di darlo alle fiamme.
La questione su cosa fare di quel cavallo si accende, infiammando tutto il popolo troiano, inevitabilmente diviso fra coloro che lo ritengono un dono divino e quelli che, invece, pensano che sia un pericoloso inganno di cui disfarsi quanto prima.
Laocoonte, il sacerdote di Poseidone, vox clamantis in deserto
La confusione su quel tratto di spiaggia regna sovrana; mille voci si sovrastano, ognuna portatrice di una verità tutta da dimostrare.
Poi, improvvisamente, quel vociare incontrollato si arresta e il suono ritmato delle onde di un mare sospettosamente placido viene sovrastato da una voce stentorea, quella di Laocoonte, il sacerdote di Poseidone1.
Quell’uomo che alla causa troiana, in quella infinita guerra, ha già offerto la vita di due dei suoi quattro figli, si fa strada a stento fra la folla improvvisamente ammutolita. Grida con tutta la forza che ha in corpo parole che si trasformano in pietre pesanti:
Dopo aver pronunciato l’ultima frase Laocoonte scaglia una lancia contro il cavallo. È un atto di sfida ma al tempo stesso un sonoro monito rivolto ai suoi concittadini, affinché non credano che quel cavallo possa essere un disinteressato dono divino.
La lancia si infilza rapida nel legno, vibrando sinistramente nel silenzio che avvolge la spiaggia. Laocoonte sembra aver convinto i troiani, nonostante quel sacerdote non goda dei favori del re Priamo e di suo figlio Ettore. A corte, infatti, alcuni suoi pareri non sono stati ben accetti ma questa è l’amara condizione degli indovini, come sa bene anche Cassandra, la poco ascoltata figlia di Priamo.
Ma proprio quando sembra deciso che quel maestoso cavallo sarà bruciato, ecco sopraggiungere dei pastori che trascinano un giovane con le mani legate. Questi, al cospetto di Priamo, dice di chiamarsi Sinone e di essere greco. Implora il sovrano di risparmiargli la vita o, in caso contrario, di ucciderlo rapidamente.
Racconta di essere stato un soldato di Palamede, colui che Ulisse aveva fatto lapidare con l’inganno, aggiungendo, per aumentare il suo credito, di come fra i greci, da tempo, serpeggi il malcontento per una guerra dall’esito sempre più incerto che lascia in eredità non fama ma solo lutti infiniti.
Sinone, che in seguito morirà nel viaggio di ritorno a Itaca attraversando il ferale stretto fra Scilla e Cariddi, ammalia i presenti che non scorgono in quel greco i tratti della più astuta delle spie, bensì i contorni del disertore che rischia la vita per essersi opposto a una guerra inutile e sanguinosa.
La parte più accalorata del racconto è quella relativa al suo arresto, voluto da Agamennone, opportunamente istruito dal perfido Ulisse che da tempo aveva giurato vendetta contro Sinone, reo di aver contraddetto il re itacese nel corso di un’accorata assemblea.
Poi Sinone, ormai padrone della scena, narra prima la sua fuga nel pieno della notte e poi la sua cattura ad opera di alcuni pastori.
Le parole ricercate, opportunamente inframezzate da commoventi lacrime che aumentano il pathos descrittivo, catturano rapidamente l’attenzione dei troiani e, cosa più importante, la loro agognata fiducia.
Per questo, quando Sinone arriva a spiegare il reale motivo alla base della costruzione del cavallo, il gioco è fatto e l’inganno, sapientemente ordito ai danni degli sprovveduti troiani, perfettamente compiuto.
Quel maestoso manufatto, creato dall’ingegno di Epeo, architetto famoso quasi quanto Dedalo, altro non è che il tentativo estremo di tacitare la collera di Atena per il furto del Palladio, la statua sacra custodita a Troia nel tempio dedicato ad Atena, messo in atto dal solito Ulisse in combutta con Diomede.
Per l’indovino greco Calcante, «figlio di Testore, il migliore fra i vati, che conosceva il presente e il futuro e il passato» come narra nel libro I dell’Iliade Omero, l’offerta del cavallo, come riferisce astutamente Sinone, è l’unico modo che i greci hanno per ottenere il perdono di Atena, la cui ira ha prodotto nell’accampamento greco immani sventure.
Un cavallo realizzato con il legno degli alberi presenti sul monte Ida, sapientemente prodotto da artigiani provetti, di nero dipinto e con una criniera di canapa, costruito in dimensioni colossali affinché non si potesse accogliere tra le porte o condurre tra le mura, né proteggesse il popolo all’ombra dell’antica religione.
Il racconto articolato di Sinone, specie il monito rivolto ai troiani a non distruggere quel cavallo, pena pesanti sventure, convince tutti i presenti, a partire da Priamo che ordina che sia condotto dentro il tempio di Atena.
Il piano sapientemente confezionato dai greci è perfettamente riuscito e tutto grazie all’abilità di Sinone. Quel ragazzo, cugino e sodale di Ulisse, perfetto latore di un messaggio ingannevole e assoluto protagonista di un capolavoro di spionaggio, è riuscito nell’intento designato.
Il cavallo, infatti, per la gioia dei greci e la successiva, inevitabile rovina dei sudditi di Priamo, sarà portato, non senza fatica, dentro Troia.
La tragica morte di Laocoonte e dei suoi figli
La decisione presa dai troiani di far entrare il cavallo dentro la città lascia sbigottito Laocoonte. A nulla è servito il suo sferzante appello, falcidiato dal patetico racconto di Sinone.
I troiani si fidano più di un greco, di una spia sapientemente celata sotto le mentite spoglie di una sventurata vittima che di un loro concittadino, oltretutto sacerdote del dio Poseidone.
Così, mentre sulla spiaggia in tanti, troppi, si affannano per condurre quel manufatto dentro la città, Laocoonte, scoraggiato dall’incoscienza dei troiani, immola al suo dio, con l’aiuto dei suoi due figli, un grande toro presso le are solenni.
Ma sarà l’ultima azione che compirà in terra.
Dal mare, infatti, emergono due serpenti con gli occhi iniettati di sangue e di fuoco che lesti si dirigono su Laocoonte, mentre sulla spiaggia gli altri troiani si danno affannosamente alla fuga.
I due serpenti, come uno sconvolto Enea racconta a Didone, avvinghiano prima i due figli di Laocoonte, serrando fra le bocche fameliche quei piccoli corpi che a morsi si pascono delle misere membra.
Poi quelle creature demoniache prendono di mira Laocoonte, accorso con le armi in aiuto dei ragazzi. Lo afferrano e stringono in grandi spire. Laocoonte lotta con ardore si sforza di svellere i nodi con la forza delle mani, ma invano. Nulla può contro la spropositata forza di quei due serpenti, la morte è a un passo, preceduta dagli clamori che Laocoonte eleva alle stelle, quali i muggiti d’un toro ferito che fugge dall’ara, e scuote via dal collo la scure malcerta.
Mentre sulla spiaggia rimangono inermi quei tre corpi orribilmente maciullati, i due serpenti fuggono verso l’alto santuario e muovono verso la rocca della crudele Tritonide.
La morte di Laocoonte e quella dei suoi figli viene colta dai troiani come il chiaro, inequivocabile segno della collera degli dèi. Il sacerdote ha pagato giustamente il delitto, poiché ha violato con la punta il legno sacro, e avventato al fianco la lancia delittuosa.
Ora, al cospetto di quell’indicibile orrore, anche i più riottosi si convincono della necessità di condurre quel simulacro al tempio e nel più breve tempo possibile.
Per questo si cercano funi, si setacciano leve, si trovano ruote possenti, l’indispensabile, insomma, per muovere quel colosso e, poi, in un generale giubilo si apre una breccia nella possente cinta muraria di Troia, per far transitare il cavallo.
Il seguito della storia è ben noto e a nulla serve neppure l’ultimo, esile monito di Cassandra, altra voce che strepita nel deserto.
Favorito dalle tenebre, lo spergiuro Sinone, accolto a Troia come un eroe, apre la botola segreta del cavallo, permettendo ai greci, stipati nell’antro, di calarsi giù grazie a una corda.
Quegli uomini, che per Apollodoro sono cinquanta mentre per Quinto Smirneo solo trenta, prendono possesso di una città sepolta nel sonno e nel vino, spalancando le porte agli altri greci, in trepidante attesa fuori delle mura.
Poi è solo morte, fiamme e distruzione.
Mentre Troia, la grande Ilio, la città che aveva tenuto testa per dieci anni ai greci, finiva in fiamme e il suo re, Priamo, veniva ucciso nella reggia, Enea si dava, non senza rammarico, alla fuga.
Quell’unico eroe troiano salvatosi dalla catastrofe, con il vecchio padre Anchise sulle spalle, i Penati saldi in una mano e il figlioletto Ascanio accanto, lascia la sua città per un futuro ancora incerto che, però, di lì a poco, avrebbe dato i natali a una nuova epopea, eternata per sempre nel nome di Roma.
1. Su Laocoonte le fonti si dividono. Secondo alcuni sarebbe stato sacerdote di Apollo, oltretutto punito da questi per essersi unito con la moglie al suo cospetto; per altri, invece, sarebbe sacerdote del dio dei mari Poseidone.
NB: Le parti in corsivo sono tratte dalla traduzione dell’Eneide di Luca Canali.
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