Di lei, di Aracne di Meonia, famosa non per ceto, tantomeno per stirpe ma per la bravura nell’arte della tessitura, scrissero in tanti. Ovidio, su tutti, però, la eternò per sempre, raccontando la sua tragica storia nel sesto libro delle Metamorfosi e da quel bellissimo e tragico mito presero spunto altri scrittori, in primis Dante Alighieri, con versi rimasti impareggiabili, ma anche Boccaccio e, perfino, Torquato Tasso.
Questa è la storia di Aracne, colei che osò sfidare una dea.
Il mito di Aracne raccontato da Ovidio
Il racconto più compiuto del mito di Aracne è, senza tema di smentita, quello contenuto nelle Metamorfosi di Ovidio, una delle opere più belle che un essere umano abbia mai scritto.
In quella summa di sapere mitologico, una sorta di vera e propria enciclopedia del mito, il poeta, originario di Sulmona, provò, attraverso ben duecentoquarantasei favole, a rappresentare l’ordine del mondo, l’incanto della natura, in cui ogni metamorfosi, anche quella più dolorosa e tragica, anche più della morte stessa, è, tuttavia, l’occasione per spiegare poeticamente l’esistente.
Il mito di Aracne è narrato all’inizio del Sesto libro delle Metamorfosi.
Aracne, non è certo famosa «per ceto o per stirpe» ma, soltanto, «per la maestria d’arte» nel tessere la tela, un’abilità, appresa in casa, attraverso la quale era diventata celebre in tutta la Lidia, al punto tale che, persino le ninfe del Timolo e quelle del Pactolo, lasciavano chi i vigneti, chi le loro acque, pur di ammirare la bravura di quella ragazza.
Ma il piacere degli ammiratori di Aracne non era solo nell’apprezzare il lavoro finito ma anche la sua stessa creazione, il passaggio dalla lana grezza delle matasse al capolavoro finale.
Gli occhi di tutti, infatti, seguivano la rapidità dei gesti di Aracne nel filare la lana, quei larghi gesti con cui ammorbidiva i bioccoli che assomigliavano a candide nuvolette.
Aracne e la sfida fatale lanciata a Pallade
Ma come poteva quella ragazza tessere così bene, quasi da sembrare che quelle mani delicate, che intrecciavano l’ordito con la trama, fossero segretamente mosse una dea?
In molti se lo chiedevano e in tanti avevano perfino la risposta. La voce, infatti, che girava per le città della Lidia e non solo, era che quella straordinaria dote fosse, in realtà, il frutto degli insegnamenti di Pallade.
Ma Aracne «lo negava e indispettita» da simili dicerie decise di provarlo, lanciando il guanto di sfida proprio a Pallade, la dea che le infamanti dicerie ritenevano l’ignota ammaestratrice.
«Che gareggi con me», disse Aracne, non senza un pizzico di vanità, «se vince», aggiunse boriosa, certa della sua bravura e del successo finale, «starò alla sua mercé.»
La sfida, ormai, era stata lanciata ma Pallade provò a far desistere l’ambiziosa ragazza e, sotto le spoglie di una vecchia, incontrò Aracne. «Ascolta il mio consiglio, le disse la vecchia, aspira pure a essere la migliore fra i mortali nel tessere la lana, ma inchinati a una dea.»
Insomma, una sorta di rivisitazione, in salsa pagana, del noto detto “scherza con i fanti ma lascia stare i santi.”
Ma quella velata minaccia, mascherata da suggerimento, non produsse l’effetto sperato da Pallade che come Laocoonte non viene ascoltata. Aracne, infatti, ripropose con maggiore vigore l’idea della sfida alla dea contando, consapevolmente, sull’orgoglio solleticato di Pallade che, infatti, abbandonato l’aspetto della vecchia si mostrò in tutta la sua potenza, accettando la sfida che quella sventurata ragazza aveva lanciato.
Il mito di Aracne: la gara con Pallade, una sfida dall’esito drammatico
«Senza indugio si sistemarono ognuna dalla propria parte e con filo sottile tendono entrambe un ordito.»
La gara, dunque, ha inizio. Pallade decide di narrare attraverso filamenti d’oro «storie remote», effigiando i dodici numi, senza tralasciare alcuno. Anche Aracne sceglie come tema le divinità, raccontando, però, un aspetto meno nobile della vita olimpica degli dei.
«Disegna Europa ingannata dal fantasma di un toro e poi Asterie che ghermita da un’aquila si dibatte e anche Leda che sotto le ali di un cigno giace supina.»
Insomma Aracne tesse in modo magistrale gli amori degli dei, senza nascondere nulla, mostrando nell’incanto dell’arte, le divine bassezze di quei personaggi.
Ma quella scelta e, soprattutto, la sfrontatezza nel raccontare quegli amori divini sarà per la giovane tessitrice alla fine fatale.
Pallade davanti alla tela di Aracne è esterrefatta per il risultato finale. Quell’opera è talmente bella che non solo lei «ma nemmeno l’Invidia stessa» potrebbe mai criticare.
Ma l’umiltà non è una dote di cui son colmi gli dei, specie nel pieno di una sfida.
Per questo, non potendo mai accettare l’onta della sconfitta, Pallade, vinta dalla rabbia «fa a brandelli la tela che illustrava i misfatti degli dei e, con in mano la spola fatta col legno del monte Citoro più volte in fronte» colpisce la malcapitata Aracne che, al pari di Marsia, non ha compreso l’impossibilità di sfidare un dio.
La triste fine di Aracne: da donna a ragno
La sete di vendetta di Pallade non si arresta con la distruzione della tela e il ferimento della ragazza ma va, decisamente, oltre, spinta da quello spirito di rivalsa che, da sempre, alberga in molte delle divinità dell’Olimpo.
Aracne è fuori di senno per la reazione della dea e per questo pensa al suicidio, il modo migliore per non sottostare a quell’umiliazione. Per questo corre «a cingersi il collo con un cappio» ma, neppure in questo caso Pallade ha pietà di quella povera sventurata, tanto che, vedendola, le lancia la peggiore delle maledizioni possibili.
Prima di congedarsi, Pallade, conclude il suo perfido piano, aspergendo Aracne con del succo d’erbe infernali. Il contatto con quel malefico filtro è, per la povera ragazza esiziale. In un lampo, perde i capelli e, «con questi il naso e le orecchie».
La metamorfosi è in atto, la testa della tessitrice si fa sempre più piccola, al pari di tutto il suo corpo, dal quale spuntano zampe sottili e pelose. In poco tempo la ragazza che aveva osato sfidare Pallade è divenuta un ragno e come un ragno, torna a tessere la sua tela ma, questa volta, per sempre. La metamorfosi è completa, la vendetta divina compiuta.
*Le parti del testo virgolettate sono direttamente tratte da Le Metamorfosi di Ovidio, a cura di Mario Ramous edito da Garzanti.
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