Prima di diventare primo ministro del Regno di Sardegna e di essere, poi, uno dei protagonisti assoluti del nostro Risorgimento, Cavour fu, innanzitutto, un ragazzo desideroso di conoscere, innamorato dei viaggi, stregato dall’Europa.
Questo è il racconto di una pagina meno nota del grande statista piemontese che però fu decisiva per la nascita di uno dei costruttori dell’unità d’Italia.
L’infanzia di Cavour nella Torino napoleonica
Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella, che la storia conobbe più semplicemente come Cavour, nacque il 10 agosto 1810 a Torino.
Allora, la città piemontese era un avamposto piuttosto periferico della Francia imperiale, uno dei tanti trofei che Napoleone Bonaparte poteva esibire agli occhi dei timorosi sovrani europei. Il tutto era accaduto l’11 settembre 1802.
Quel giorno, infatti, a due anni di distanza dalla battaglia di Marengo, dove Napoleone e il suo esercito avevano piegato la resistenza di quello austriaco, il Piemonte era entrato a far parte, per decreto, dell’impero francese. Si concludeva, così, l’effimera esperienza della Repubblica Subalpina e iniziava il periodo napoleonico che, specie a Torino, lascerà più di un segno.
Nell’ex capitale dei Savoia, riparati nel frattempo a Cagliari, gli anni della dominazione napoleonica furono caratterizzati da una serie di progetti per la città, non tutti, per fortuna, portati a termine, come nel caso della mancata demolizione di Palazzo Madama.
La storica dimora dei Savoia, oggi patrimonio universale dell’umanità, fu, nel corso dell’occupazione napoleonica, più volte al centro di progetti riguardanti il suo abbattimento. Agli occhi dei nuovi signori di Torino quel palazzo era il simbolo più evidente del precedente potere, la rappresentazione in pietra dell’oscurantismo savoiardo. Ma Palazzo Madama non fu abbattuto e questo grazie all’intervento di Napoleone in persona.
Si racconta che quando il generale Menou, governatore di Torino dal 1802, espose a Napoleone, durante una visita nella futura capitale italiana, il progetto di demolizione della storica sede dei Savoia, sottolineando come fosse quanto mai opportuno disfarsi di quella “vecchia baracca”, l’imperatore, serafico, abbia risposto: «Sei tu, Menou, una vecchia baracca!»
Ben diversa fu la vicenda del Ponte di Pietra, certamente l’opera più significativa realizzata a Torino negli anni del dominio napoleonico. Costruito tra il 1810 e il 1813, l’opera, oggi conosciuta come Ponte Vittorio Emanuele I, permise di collegare la città alla prospicente collina, valicando il sottostante Po.
Si trattò di un’infrastruttura non solo utile ma anche bella, frutto della progettazione dei migliori ingegneri francesi che accolse il plauso dei torinesi che apprezzarono quel ponte composto da cinque arcate e lungo ben 150 metri.
In quella Torino che si rifaceva il trucco per volontà dello stesso Napoleone, mosse i primi passi il piccolo Camillo Benso, secondogenito di Michele Benso di Cavour, una sorta di piccolo Talleyrand nel Piemonte di inizio Ottocento.
Il padre del futuro statista, infatti, al contrario di altri nobili piemontesi, non fu travolto dalla dominazione napoleonica.
Pur di idee conservatrici, anzi decisamente reazionarie, Michele, che sotto i Savoia ricopriva un ruolo preminente, dopo una iniziale difficoltà, acuita anche da cospicue perdite economiche legate all’avvento dei francesi, riuscì a rialzare la testa.
Fu, infatti, come ha scritto Denis Mack Smith, nel suo Cavour, il grande tessitore dell’unità d’Italia, «sufficientemente accorto e calcolatore da dichiararsi (più in fretta di altri aristocratici) per il nuovo, più emancipato regime napoleonico.»
L’ambizione di Michele gli permise in poco tempo di ascendere alla carica di ciambellano di corte, un ruolo che lo mise in luce, tanto da attirare l’attenzione del principe Camillo Borghese, governatore del Piemonte dal 1808 e di sua moglie Paolina, la sorella di Napoleone che il genio di Antonio Canova eternò in una delle sue sculture più belle.
Fu talmente apprezzato Michele e la sua famiglia che i due coniugi decisero di fare da padrino e madrina al piccolo Camillo, il giorno del battesimo, regalando al futuro statista una cospicua dote in denaro che sarà utilizzata in futuro dal giovane Cavour per i suoi numerosi viaggi.
Il giovane Cavour alla scoperta dell’Europa
A Cavour Torino, specie con il ritorno dei Savoia all’indomani del Congresso di Vienna, stava decisamente stretta, nonostante fosse, pur sempre, la capitale del Regno di Sardegna.
Ma quel regno, sebbene ampliato territorialmente dai trattati del 1815 con l’annessione dell’ex Repubblica di Genova, rimaneva, pur sempre, uno dei tanti statarelli che componevano l’Italia preunitaria, “un’espressione geografica” come l’avrebbe cinicamente definita Metternich, il 2 agosto 1847, in una nota inviata al conte Dietrichstein.
Uno stato piccolo, la popolazione complessiva era di poco superiore a quattro milioni, meno di un quinto della popolazione italiana ma, soprattutto, mal governato. A gravare sullo sviluppo dello stato sabaudo erano l’arretratezza economica e quella strutturale, evidenziata da una cronica assenza di vie di comunicazione, che non solo isolavano le diverse province interne ma, di fatto, anche il regno stesso.
Ma il male peggiore era dettato dalla miopia di una classe dirigente ancorata al passato, la cui unica preoccupazione, nel momento in cui era tornata in auge, era stata quella di cancellare le riforme napoleoniche.
Per Cavour il Regno di Sardegna era un luogo angusto, una realtà antiquata, giudizio che, fatalmente, estendeva anche ad altri stati preunitari.
Il suo sguardo era rivolto fuori dagli stretti confini piemontesi e si posava su realtà quali Parigi, Bruxelles, e soprattutto Ginevra, la città d’origine della madre dove più volte aveva soggiornato.
Proprio i costanti soggiorni a Ginevra avevano acuito nel piccolo Camillo una passione sconfinata per il viaggio, inteso, però, non solo come momento di divagazione ma come occasione per crescere, per conoscere, per imparare, confrontandosi con culture ben più sviluppate rispetto a quella piemontese.
D’altra parte, come ha efficacemente sottolineato lo storico Luciano Cafagna nel suo Cavour, «uno dei maggiori paradossi dell’Italia contemporanea è che l’uomo il quale avrebbe tenuto le fila, e tessuto la rete, della nascita di quest’Italia come Stato-nazione era per formazione e cultura pochissimo italiano» e questo non solo perché parlava poco e male la lingua italiana.
Cavour conosceva pochissimo la penisola, basti pensare, ad esempio, che visitò Bologna e Firenze, la capitale temporanea del futuro stato italiano, solo pochi mesi prima di morire e ancor meno conosceva le realtà politiche e sociali dei diversi stati in cui il Bel Paese era suddiviso.
La costruzione dell’Unità d’Italia operata da Cavour fu il frutto della sua conoscenza dell’Europa, dei tanti viaggi che lo statista fece più volte e che lo portarono a Ginevra, Parigi, Londra, Bruxelles, città in cui respirò la più profonda cultura europea, passando, come ha scritto sempre Cafagna, «attraverso il culto per il progresso europeo e per le forme politiche, economiche e culturali proprie del progresso di quel tempo.»
Quei numerosi viaggi, che compì in particolare tra il 1834 e il 1841, furono un vero e proprio tirocinio all’estero, dove concepì la sua idea di società moderna, basata su concetti quali la moderazione, la ragionevolezza, la tolleranza ma anche il progresso economico, tutte realtà di cui aveva fatto diretta esperienza alloggiando in Francia, in Svizzera e soprattutto in Inghilterra, posti dove si sentiva realmente a casa e di cui vagheggiò sempre la bramosia di ritornarci.
Il tour europeo di Cavour
La scoperta dell’Europa da parte del giovane Cavour ha una data ben precisa: febbraio 1835. In quell’anno, infatti, con l’amico Pietro De Rossi di Santarosa (cugino del più celebre Santorre, uno degli eroi del nostro Risorgimento) Cavour parte alla volta della Francia, soggiornando, in particolare, a Parigi.
Nella capitale transalpina vi rimane per più di due mesi, durante i quali poté conoscere e apprezzare la realtà politica francese. Non solo vide, per la prima volta, all’opera un parlamento ma ebbe anche la possibilità di studiare da vicino gli effetti della rivoluzione industriale in Francia.
Rimase affascinato dal pensiero di Guizot e di Thiers, persuadendosi, come ha scritto Denis Mack Smith, che «nessun sovrano europeo era così saldo in trono come Luigi Filippo.»
Nell’agenda parigina di Cavour non c’era solo lo studio del sistema politico francese ma anche di quello sociale, verso il quale, riserverò, se possibile, anche maggiore attenzione. Per questo motivo visitò carceri, scuole, fabbriche, ospedali ma anche ospizi, convinto che la grandezza di una nazione passasse anche, se non soprattutto, attraverso il buon funzionamento di queste istituzioni.
Il 14 maggio 1835 Cavour lasciava Parigi alla volta di Londra, una realtà che, pur non conoscendo ancora direttamente, aveva, tuttavia studiato, analizzando, in particolare, il Poor Law Amendment Act, ovvero la legge con cui Londra stava tentando di affrontare e risolvere il grave e atavico problema della povertà in Inghilterra, una realtà che Charles Dickens aveva raccontato splendidamente nei suoi romanzi.
L’attenzione al Poor Law Amendment Act spinse l’allora ventiquattrenne Cavour a prendere carta e penna e scrivere un saggio sulla questione, il suo primo vero lavoro, in cui il futuro primo presidente del consiglio italiano sviluppava un interessante parallelo fra la realtà inglese e quella piemontese, un confronto, ovviamente, da cui il Regno di Sardegna ne usciva decisamente perdente.
Della capitale inglese Cavour cercò di vedere il più possibile, convinto che da quel viaggio dovesse trarne i maggiori benefici. Non solo la Camera dei Comuni, che lo affascinò oltremodo per le antiche e rituali procedure, ma anche le rinomate università, le tantissime fabbriche, le efficienti banche, le ferrovie e i porti, o, anche, l’azienda locale di illuminazione che dava luce, cosa stupefacente per l’epoca, alla gran parte delle strade londinesi.
Ma come a Parigi anche a Londra l’attenzione di Cavour si rivolse, in particolare, al sistema carcerario che lo lasciò del tutto estasiato. Il futuro primo ministro italiano apprezzò la pulizia e l’efficienza delle prigioni inglesi, dove molti dei detenuti erano impiegati in programmi di rieducazione, un concetto che, nel reazionario Regno di Sardegna, appariva pura fantascienza.
Anche a Londra non furono pochi gli incontri con personalità di livello. Tra questi Tocqueville che vide ben due volte, una in casa di Nassau William Senior e la seconda presso l’abitazione di Charles Babbage, l’inventore della macchina analitica, le cui potenzialità furono ben spiegate da Ada Lovelace.
A proposito degli inglesi, Cavour ebbe a dire:
«hanno il dono di saper lavorare in comune. Discutono senza litigare; hanno un gran rispetto per le opinioni individuali. La minoranza, per quanto piccola essa sia, è sicura d’essere ascoltata con attenzione e pazienza. Spesso l’opposizione d’un solo membro basta per far rinviare una decisione al momento in cui la materia in discussione sarà chiarita e tutti i membri avranno una stessa convinzione.»
Il ritorno di Cavour a Torino
Il viaggio inglese si concluse, tuttavia, prima del previsto. Cavour, infatti, fu richiamato a Torino dal padre che richiedeva la presenza del figlio per risolvere una serie di pressanti questioni di natura finanziaria, relative alla direzione di alcuni possedimenti familiari.
Proprio l’aiuto richiesto dal padre permise al giovane Cavour, non ancora tentato dalla politica, di mettere a frutto quanto appreso nel corso di quei soggiorni all’estero, specie riguardo alla gestione dell’azienda agricola di famiglia che beneficiò e non poco di quanto appreso da Camillo relativamente a tematiche fondamentali quali il corretto uso dei concimi, i diversi tipi di sistemi di coltivazione, nonché le importanti nozioni di agronomia.
Quel lungo tour europeo del 1835, in seguito replicato, seppur non con quello stesso originario e spontaneo entusiasmo, (nel 1836 Cavour visitò, sempre in compagnia di Pietro De Rossi di Santarosa, il Belgio, studiando, in particolare, il sistema delle colonie agricole e di quelle dei detenuti) non solo gettò le basi europee, progressiste e liberali del pensiero cavouriano ma lasciò nel giovane un segno indelebile, una memoria che riaffiorerà in seguito quando, chiamato alla guida del Regno di Sardegna prima e dello Stato italiano poi, poté mettere in atto quanto appreso nel corso di quei tirocini all’estero, dall’ambito politico a quello economico, passando, soprattutto, per l’efficientamento della macchina amministrativa, la base per la crescita di una solida nazione.
Il rientro nella poco amata patria, tuttavia, fu quanto mai difficile. A Torino, infatti, Cavour ritrovò quella plumbea cappa, quel provincialismo così odioso, quell’opprimente arretratezza culturale da cui aveva tentato di fuggire trasferendosi all’estero.
Tutto gli appariva noioso. Nulla nella città sabauda gli sembrava più interessante, perfino gli amati libri, in quel clima poco brillante, non riuscivano ad appagarlo.
Aveva nostalgia, soprattutto, dell’Inghilterra, un luogo in cui avrebbe voluto nascere e crescere.
«Se fossi inglese – ebbe a scrivere sul suo diario – a quest’ora sarei già qualcuno e il mio nome non sarebbe sconosciuto. Ma sono piemontese, e visto che non posso cambiare, devo almeno cercare di non rendermi ridicolo.»
Per fortuna Cavour non solo non fu mai ridicolo ma il suo nome riecheggia, ancora oggi, nel nostro Pantheon risorgimentale, figura chiave dell’Unità d’Italia.
Il grande filosofo Guido De Ruggiero, a proposito di Cavour e del suo europeismo, ebbe a dire: «Fu l’unico uomo veramente europeo del Risorgimento italiano.»
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