Il processo ad Aldo Braibanti, conclusosi nel luglio del 1968 con la condanna a 9 anni per plagio, reato in seguito espunto dal codice penale italiano, fu una vicenda sociale, prima ancora che giudiziaria, la reazione di una certa Italia, bigotta e retrograda, ai venti impetuosi del cambiamento che in quegli anni soffiavano sempre più forti.
Il caso di Aldo Braibanti, novello Socrate in un Paese che provava non senza fatica a diventare migliore, fu, come ha scritto Gabriele Ferluga «uno dei terreni di scontro fra le forze allora in campo: la contestazione ai valori dominanti e la reazione di chi allora si sentì messo in discussione.»
Ma fu, innanzitutto, una vicenda giudiziaria per certi aspetti unica nel suo genere, «uno dei rari casi giudiziari di consistente rilievo – per usare ancora le parole di Ferluga- nei quali l’omosessualità sia emersa e sia stata condannata in modi così evidenti.»
Aldo Braibanti: biografia di un uomo controcorrente
Aldo Braibanti nasce a Fiorenzuola d’Arda, in provincia di Piacenza, il 17 settembre 1922. La Marcia su Roma non è ancora avvenuta ma la longa manus di quell’anomalo partito che fa della violenza la sua arma politica più vigorosa e convincente, sta per essere drammaticamente stesa.
Proprio l’acceso antifascismo sarà una costante nella vita del giovane Aldo che già nel 1939, quando il fascismo è oramai una consolidata e brutale dittatura, lo fa essere, lui giovane studente universitario di filosofia, in prima linea nella lotta al regime di Mussolini.
Quell’impegno si rafforza con gli anni e con la caduta del regime eccolo nelle file della Resistenza, esperienza che pagherà con il carcere.
Dopo la guerra, Braibanti entra nel Pci, mettendosi in luce per la spiccata intelligenza, il grande impegno ma anche per un’evidente insofferenza verso il centralismo del partito di Togliatti e, soprattutto, verso il diffuso dogmatismo che permea quella compagine politica.
Aldo Braibanti, d’altra parte, è uno spirito libero, un anarchico nel pieno senso della parola, per questo, seppur a malincuore, nel 1955, a otto anni dall’iscrizione, decide di lasciare il Pci.
Ma questa scelta non la vivrà come una sconfitta ma come un’occasione. Intellettuale versatile, l’ex studente partigiano è animato da molteplici interessi che coltiva con passione e abnegazione. Dall’amatissima filosofia al teatro che concepisce in forme decisamente sperimentali; dalla politica all’arte che declina in diverse forme, tutte sempre innovative. Tra i mille interessi di Braibanti, tra cui hanno asilo anche il cinema e la poesia, c’è spazio pure per la mirmecologia. Lo studio delle formiche e della loro complessa e articolata società, basata su rigide regole, lo affascina da sempre.
Questa mentalità multiforme, continuamente proiettata verso la conoscenza, mette le radici a Castell’Arquato, un piccolo paese del piacentino. Nel suggestivo Torrione Farnese, Braibanti, a partire dal 1947, con altri amici e collaboratori, tra cui il pittore Renzo Bussotti, anima un laboratorio artistico, un vero e proprio cenacolo di giovani menti impegnate in varie attività, tra cui la realizzazione di ceramiche, alcune delle quali saranno esposte alla Triennale di Milano, a Parigi e, persino, ad Oslo.
Sono anni intensi, altamente produttivi, molto stimolanti per Braibanti che ravviva in quel contesto artistico la spinta libertaria ma anche la ricerca politica e filosofica che lo avevano impetuosamente pervaso negli anni della Resistenza.
L’incontro di Aldo Braibanti con Giovanni Sanfratello
Ma l’esperienza del Torrione Farnese, pur dinamica e per certi aspetti irripetibile, si esaurisce nel 1962. In quell’anno l’amministrazione comunale democristiana, più per questioni ideologiche che economiche (quel circolo di artisti sui generis, a molti in paese non piace) decide di non rinnovare a quei ragazzi l’affitto della struttura.
Braibanti lascia l’Emilia e dopo aver soggiornato prima a Milano e poi a Firenze, si trasferisce a Roma, lasciandosi alle spalle un periodo di grande intensità intellettuale e produttiva che ha visto, tra l’altro, la genesi della multiforme opera “Il circo e altri scritti” quattro volumi in cui sono raccolte poesie, testi teatrali ma anche numerosi saggi.
Ma l’esperienza del Torrione non è solo intellettualmente significativa ma anche umanamente rilevante. Braibanti conosce molti giovani che frequentano quel singolare laboratorio artistico, dove poesia, pittura, scultura, teatro sono di casa.
Tra questi c’è anche Giovanni Sanfratello con cui nasce una forte amicizia che, nonostante la differenza d’età, Braibanti ha diciotto anni in più, si consolida nel tempo. Per Giovanni, Aldo è un amico, un punto di riferimento, oltre che “uno straordinario genio” come anni dopo lo definirà Carmelo Bene.
Dopo la fine dell’esperienza del Torrione, Braibanti e Sanfratello si ritrovano e quel sodalizio culturale si consolida, tanto che i due decidono di convivere. Ecco come lo stesso Braibanti racconta il trasferimento a Roma in compagnia di Giovanni Sanfratello:
Ma la decisione di Giovanni di andare a vivere presso la pensione dove vive Braibanti, rappresenta per la famiglia Sanfratello un punto di non ritorno.
Già ai tempi del Torrione il padre di Giovanni, Ippolito Sanfratello, aveva poco tollerato quella relazione culturale, fonte, a suo dire, di alcuni inspiegabili cambiamenti caratteriali e decisionali del figlio. Ma accettare ora una convivenza, diventa assolutamente inconcepibile.
Aldo Braibanti denunciato per plagio
Il 12 ottobre 1964, Ippolito Sanfratello decide di passare all’azione, presentando un esposto-denuncia alla Procura di Roma contro Aldo Braibanti, reo, a suo dire, di aver plagiato il figlio Giovanni, all’epoca dei fatti ancora minorenne (la maggiore età si conseguiva al ventunesimo anno di età) secondo quanto previsto dall’articolo 603 del Codice penale italiano.
Nella denuncia (inizialmente comprendente anche l’articolo 605, riduzione in schiavitù, accusa che, però, decade subito) Sanfratello racconta come il figlio non rimanesse mai solo in casa e quando tale circostanza si verificava per delle necessità del Braibanti, questi letteralmente lo segregava, chiudendolo nella stanza con tanto di lucchetto alla porta.
A questa sorta di prigionia, alla dipendenza psichica e culturale, si aggiungeva anche quella fisica perché, scrive il padre nella denuncia, essendo Aldo Braibanti un «omosessuale gli imponeva di subire gli sfoghi dei suoi istinti contro natura.»
L’omosessualità, ecco il vero motivo, molto probabilmente, che spinge Ippolito Sanfratello ad agire, qualcosa che per un benpensante come lui è inaccettabile, come lo è ancora per una parte rilevante di italiani.
La denuncia va avanti e si apre ufficialmente l’inchiesta. Gli inquirenti iniziano a raccogliere le prime testimonianze, tra cui quelle di Pier Carlo Toscani, uno dei tanti giovani che avevano frequentato il Torrione, le cui dichiarazioni saranno centrali non solo in fase istruttoria ma anche in quella successiva processuale.
Questi racconta di come Braibanti esercitasse un particolare fascino sui tanti giovani che frequentava, affascinandoli con la sua intelligenza, la personalità complessa, le idee libertarie ma anche con i modi raffinati e decisamente inconsueti.
Toscani ammette di essere stato irretito, riferendo di come Braibanti avesse tentato di introdursi nella sua vita «con le sue idee politiche: cioè comunismo in nome di una libertà superiore e ateismo distinto concettualmente dall’agnosticismo.»
Comunismo, ateismo ma soprattutto omosessualità, una triade perfetta per portare alla sbarra Aldo Braibanti, il professore come, con evidente dileggio, lo ribattezzano i media, anche se quell’uomo minuto non ha mai insegnato, nemmeno un’ora nella sua vita.
Si apre il processo Braibanti, una vergogna tutta italiana
L’istruttoria va avanti, alimentandosi bulimicamente di dicerie e maldicenze, il pasto perfetto da dare a turbe di affamati di becero moralismo, mascherato da presunta giustizia.
Il 1° novembre, a poche settimane dalla formale denuncia, Giovanni Sanfratello viene prelevato dal padre e da altri familiari presso la pensione romana Zuanelli, mentre Giovanni è intento a dipingere e Braibanti a scrivere.
Per il ragazzo si aprono prima le porte della casa di cura Villa Rosa, a Modena, poi quelle del manicomio provinciale di Verona. Alla base del ricovero, come si legge nel referto medico, c’è una grave forma di depressione psichica, patologia che mette a rischio l’incolumità di Giovanni Sanfratello ma anche quella altrui.
A Braibanti va pure peggio. Il 5 dicembre viene arrestato e tradotto nel carcere romano di Regina Coeli. L’accusa che lo porta dietro le sbarre, firmata dal giudice istruttore Antonino Loiacono, titolare dell’inchiesta, è quella di plagio nei confronti di Giovanni Sanfratello e Pier Paolo Toscani.
In una lettera spedita dal carcere e indirizzata alla madre, Braibanti scrive:
Il processo ad Aldo Braibanti si apre il 12 giugno 1968.
Quello che compare al cospetto dei giudici della Corte d’Assise, presieduta da Orlando Falco, è uomo provato dalla lunga carcerazione ma non per questo vinto, nonostante il suo destino processuale appaia già segnato.
L’opinione pubblica è in gran parte contro l’imputato, sapientemente “plagiata” da una certa stampa che irrompe in quell’aula di giustizia con i denti aguzzi di una belva famelica.
Sui giornali di destra ma anche su quelli “borghesi” i giudizi taglienti, conditi da torbidi racconti, non si contano. Braibanti è l’orco, il novello Socrate che soggioga innocenti ragazzi nell’Italia della contestazione, il cattivo maestro che «non si limitava ad impadronirsi della personalità dei suoi allievi – come scrive su “Il Tempo” Franco Salomone – ma aveva con essi rapporti omosessuali.»
Ecco la principale accusa che non solo il pubblico ministero ma un’Italia bigotta muove ad Aldo Braibanti: l’omosessualità.
Fin dalle prime udienze del processo emerge piuttosto chiaramente come più che il presunto plagio (un reato, bene inteso difficilmente dimostrabile, tanto che nessuno dei pochi imputati era stato mai condannato) sia da giudicare, e dunque da condannare, l’omosessualità dell’imputato.
Pur non vietata, nell’Italia del 1968, l’omosessualità è ritenuta da molti come una pratica abietta, contro natura, tanto che il termine invertito, è, purtroppo, ancora in auge, un vocabolo intriso di una profonda carica razzista e moralizzatrice.
Di fatto Braibanti più che del plagio deve rispondere dei suoi gusti sessuali e dello stile di vita che da anni conduce, accusa che fa il paio con quella di essere comunista e ateo.
Per una certa Italia che ama spiare dal buco della serratura, il processo Braibanti è un perfetto passatempo per arricchire un’incipiente calda estate.
La sentenza Braibanti, un abominio giuridico
Il processo Braibanti si conclude in poche settimane, scandito da un’attenzione mediatica che tiene incollata l’opinione pubblica attraverso resoconti minuziosi e soprattutto pruriginosi.
Il 14 luglio, in piena notte, arriva l’atteso pronunciamento della corte.
Sono le due quando in un’aula ancora gremita nonostante l’ora tarda, fa il suo ingresso, dopo sei ore di camera di consiglio, il presidente Folco che legge la sentenza: «Visti gli artt. 483, 488, 489 CPP dichiara Braibanti Aldo colpevole del reato ascrittogli e, concesse le attenuanti generiche, lo condanna alla pena di anni nove di reclusione, nonché al pagamento delle spese processuali ed a quelle del proprio mantenimento in carcere.» Ingiustizia è fatta.
Braibanti viene anche condannato al risarcimento dei danni alle parti civili, nonché all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, neanche fosse il peggiore dei criminali mai andato alla sbarra. Lo smarrimento dell’imputato è assoluto e a poco servono alcune grida che si sollevano dai banchi del pubblico contro quella che viene giustamente avvertita come una sentenza oscena.
Il 5 dicembre 1969, due anni esatti dopo essere entrato in carcere, Aldo Braibanti torna libero, per effetto della sentenza della Corte d’Appello che ha ridotto la pena inflitta da nove a quattro anni, due dei quali condonati per meriti resistenziali. Due anni di carcere per non aver commesso nulla, anzi, peggio, per essere un omosessuale.
Tra le tante voci di dissenso che si sollevano all’indomani della scandalosa sentenza di primo grado, quella forse che meglio riassume la profonda, disumana ingiustizia di quella condanna, è di Pier Paolo Pasolini:
P.s.: questo articolo non poteva essere scritto senza la consultazione assidua e rigorosa del bellissimo Il processo Braibanti di Gabriele Ferluga, Silvio Zamorani editore, senza dubbio la migliore e più compiuta opera sull’intera vicenda di Aldo Braibanti.