Quarant’anni fa la vita di Enzo Tortora fu stravolta per sempre. Uno stimato professionista della televisione, un giornalista serio e preparatissimo, un padre di famiglia, nel tempo di un’incipiente alba di metà giugno, fu proiettato in un moderno e mediatico girone dantesco, divenendo protagonista di un infinito orrore giudiziario. Nel tempo di una raffica di flash il papà di Portobello, il già conduttore della Domenica sportiva, uno dei volti più noti dell’etere nazionale, assunse le sembianze del mostro perfetto, quello da dare in pasto a un’opinione pubblica fagocitante che assisa sugli spalti di infuocate arene, attendeva la vittima sacrificale, pronta ad affondare i denti nella tremula carne.
Questa è la storia della vicenda giudiziaria di Enzo Tortora, «il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso effettuato dal nostro paese» come lo definì anni dopo Giorgio Bocca.
Quell’incredibile 17 giugno 1983
«Fino a qualche giorno prima avevo fatto parte di quella stragrande maggioranza di cittadini che rimuovono freudianamente l’idea del carcere, la considerano un’ipotesi astratta, un’equazione matematica troppo astrusa per rifletterci sopra, un incidente probabile come l’assalto di un elefante nel pieno centro di una città.»
Ma quell’elefante in un caldo giorno di metà giugno transitò per davvero, devastando la normale esistenza di un professionista ma, soprattutto, di un essere umano, di una persona perbene.
Roma, 17 giugno 1983, hotel Plaza, sono da poco passate le quattro di una notte italiana che lascia muti, mentre la luna semplicemente si è spostata.
Il sonno di Enzo Tortora viene interrotto dal bussare ripetuto alla porta della sua stanza d’albergo. Il risveglio è improvviso, sulle prime il conduttore di Portobello, la trasmissione culto di mamma Rai, capace di inchiodare davanti al televisore ogni sera fino a ventotto milioni di spettatori, non comprende il motivo di quel picchiare insistito ma percepisce distintamente la parola carabinieri.
Tortora apre la porta, è in pigiama, visibilmente scosso e stordito da quel brusco, inatteso risveglio. Non fa in tempo a chiedere cosa quei tutori dell’ordine vogliano che quelli iniziano a mettere a soqquadro la sua stanza d’albergo. Quello che accade dopo è una veloce, inimmaginabile discesa agli inferi ma senza nessun Virgilio a precedere il rapido pendio.
Il presentatore lascia il Plaza come il peggiore dei delinquenti, scortato dai carabinieri e da una notte che per poco sarà ancora padrona. Mentre l’auto su cui è fatto salire mastica pezzi di nero asfalto, Tortora ignora il motivo di tutta quell’assurda realtà che, forse, neppure il genio di Kafka avrebbe saputo narrare.
Il proseguo di quell’incredibile, surreale risveglio nel cuore di una notte che prova a difendersi da un’alba accecante, è una cronaca che ha il colore nero dei titoli a nove colonne e il profilo acceso di immagini che irrompono nelle case degli italiani, un mix perfetto per annunciare un arresto eclatante, carburante ideale per alimentare il perenne fuoco della gogna mediatica a cui quasi nessuno vuole mancare.
Tortora è condotto presso il Comando legione Lazio dei Carabinieri ed è in quelle stanze che viene finalmente a conoscenza del motivo del suo arresto. È sospettato di associazione a delinquere di stampo camorristico finalizzata al traffico d’armi e stupefacenti, un’accusa mastodontica che farebbe tremare i polsi anche al più incallito dei criminali.
Ma l’arresto di Tortora non è l’unico. Quel 17 giugno son ben 856 persone che ricevono un mandato di cattura e di queste 412 finiscono addirittura agli arresti. Per tutti gli indagati l’accusa è la medesima: traffico di stupefacenti e partecipazione ad associazione a delinquere di stampo camorristico. L’obiettivo di questa maxi retata che vede coinvolti oltre ottomila agenti delle forze dell’ordine, è la Nuova Camorra Organizzata, la creatura criminale di Raffaele Cutolo.
Ma più di Renato Vallanzasca, uno dei nomi eccellenti dell’operazione, è Enzo Tortora il pezzo da novanta, la fiera da esibire nello zoo umano, per il piacere di molti e il disappunto di pochi.
Quando il sole è già alto su una Roma che dalla letargia passa lasca alla frenesia di un momento storico da raccontare alle generazioni future, ecco il momento che nessuno vuole perdersi, il colpo di teatro, sapientemente preparato e immortalato da una selva di flash e di telecamere che si assiepano davanti a un anonimo portone all’88 di via In Selci. Quella strada, non lontana dal Colosseo, dove moltissimi secoli prima esseri umani venivano uccisi per il puro piacere degli spettatori, si trasforma in una moderna, mediatica arena dove viene fatto sfilare in manette un volto famoso, scortato da due carabinieri nell’estiva uniforme color kaki, con tanto di cravatta d’ordinanza e berretto ben calzato sul capo.
Tutto deve essere perfetto agli occhi delle decine di giornalisti e dei comuni mortali, pronti, questi ultimi a ingiuriare quel vip un tempo idolatrato, amato, coccolato che inerme, smarrito, con i ceppi ai polsi si offre a quella platea di ipocriti benpensanti.
Processo a Enzo Tortora: un inferno chiamato Regina Coeli
Dalla caserma dei carabinieri in via In Selci al carcere di Regina Coeli la distanza non è molta ma quel tragitto al presentatore Rai sembra infinito. Alla casa circondariale di Roma Tortora arriva intorno alle 13. Il caldo è opprimente, i vestiti si attaccano a un corpo che suda per la temperatura elevata e ghiaccia per un’umanissima, insopprimibile paura.
Il furgone su cui Tortora viaggia si ferma bruscamente, il portellone si spalanca, e colui che fino a qualche giorno prima calamitava l’attenzione catodica di milioni di italiani viene fatto scendere e, ancora rigorosamente ammanettato, compie poche decine di metri a piedi prima che il portone del vecchio carcere capitolino si apra per ingoiare un uomo e la sua storia, catapultandolo nel girone infernale dei detenuti in attesa di giudizio.
Tortora sale il suo personale calvario accompagnato dagli insulti e dagli sputi dei presenti, accorsi in massa in quel giorno di metà giugno per emettere la loro implacabile, popolare sentenza, perché, come amava ripetere spesso Enzo Ferrari, gli italiani ti perdonano tutto, tranne il successo. Prima di divenire a tutti gli effetti un carcerato, ci sono delle formalità da disbrigare, tra cui la penosa consegna degli oggetti personali, compresa la cintura dei pantaloni.
A Tortora viene assegnata la cella 16 bis, anche in un carcere la scaramanzia è una cosa seria e il 17, se possibile, è meglio lasciarlo fuori. Con il presentatore ci sono altri sei detenuti, troppi per uno spazio così esiguo che, come scriverà alcuni giorni dopo alla compagna Francesca Scopelliti «non è esattamente il Circolo del Golf.»
In quella stessa lettera, datata 2 luglio, Tortora prevede lucidamente il futuro che lo attende, quel tunnel di cui, almeno per ora, scorgere la luce appare impossibile. «Martedì o giovedì avrò, a quel che si dice, un confronto con un criminale o due che non ho mai visto, e poi non so. Quello che so è che la lotta fra me, innocente, e l’accusa, ormai impegnatissima a dover dimostrare il contrario (un altro aspetto di questa farsa italiana) continuerà a lungo.» E sarà così.
«Papà fa il suo dovere di uomo: resiste.»
Il dramma di Enzo Tortora prima che collettivo e mediatico è innanzitutto personale, profondamente intimo. Con lui a soffrire sono gli affetti più familiari, travolti da qualcosa che non possono comprendere, tanto è assurdo, irreale.
In quella schiera compatta, travolta da un’impensabile realtà, c’è anche Gaia Tortora, la più piccola delle due figlie del giornalista che quel maledetto 17 giugno 1983 è semplicemente una quattordicenne che deve sostenere l’esame di terza media; ma la prova che l’attende sarà ben più ardua rispetto a delle risposte da dare a una commissione d’esame.
Gaia quel giorno si sveglia presto, è naturalmente tesa per l’imminente esame, per questo derubrica l’improvviso trambusto che si anima in casa, salmodiato da un telefono che non smette ossessivamente di squillare, a fatti di poco conto.
L’arresto del papà è già avvenuto ma Gaia, almeno fino a quando non sosterrà l’esame, non deve sapere. Per questo intorno a lei si erge una fitta, tenera rete di protezione familiare. Solo dopo, a esame sostenuto, quella ragazzina riallaccerà i fili di una trama apparentemente smagliata, dando finalmente una spiegazione a quelle apparenti piccole incongruenze, profilatesi in quel giorno di quasi estate.
Gaia comprenderà il perché appena arrivata a scuola sia la prima a essere interrogata, nonostante da calendario sia solo la sesta; ma, soprattutto, darà un senso a quel fermento che ha animato durante l’esame i membri della commissione, il cui culmine viene raggiunto quando nell’aula arriva una trafelata Silvia, la sorella maggiore di Gaia.
Ciò che segue dopo è un rincorrersi di parole, silenzi, immagini spietate rimandate da un piccolo schermo e proiettanti il volto di un padre ammanettato che cammina lento, tenuto per le braccia da due carabinieri, sfilando davanti a una folla vomitante ingiurie e sputi.
Gaia è stordita e reagisce a modo suo a quell’orrore che rapido scorre. Sceglie il mutismo, sigillandosi nella sua camera, preferendo il silenzio al rumore di domande alle quali per ora non può esistere alcuna risposta. Quella naturale, adolescenziale reazione si interrompe solo quando Piero Angela, collega e amico vero di Enzo Tortora, accorso subito dopo aver saputo, entra nella stanza di Gaia e, dopo averla teneramente stretta a sé, le ripete mille volte che andrà tutto bene.
Quel dolcissimo gesto di un uomo che per Gaia è casa, famiglia, protezione, è la freccia che trapassa quell’iniziale bolla, dischiudendo quel voluto, protettivo letargo. Nel tempo di un attimo quella ragazza di quattordici anni si ritrova donna, scortata da una famiglia che la protegge ma che non potrà esimerla da un calvario tutto da scalare.
Fuori dalla sua stanza, lontana da quel tenero abbraccio, c’è un orrore da contrastare, l’onore di un padre da tutelare, vite improvvisamente stravolte da preservare. Ma quella ragazzina non ha nessuna voglia di mollare, certa che suo papà da dietro le sbarre saprà lottare, facendo in pieno il suo dovere, quello di resistere.
Va in scena la farsa, dalle accuse all’incredibile processo
Quattro giorni dopo quel maledetto 17 giugno Enzo Tortora finalmente incontra il suo difensore, Raffaele Della Valle, giunto da Monza nella capitale, appena saputo dell’arresto.
Il primo confronto fra gli inquirenti e il presentatore è, come ricorda lo stesso Della Valle, «un esamino ridicolo» un interrogatorio irridente che dura una manciata di minuti, il tempo per chiedere a un basito Tortora se conosca la donna ritratta in una foto, se sia mai stato a Ottaviano e, soprattutto, se abbia mai frequentato Domenico Barbaro, un detenuto con la passione per l’uncinetto ma che diventerà uno dei pilastri della kafkiana vicenda processuale a suo carico.
Tortora a quelle tre domande risponde con tre convinti no. Non conosce quella donna, anche se scopre da uno dei magistrati che lo interroga che fa la puttana; non è mai stato a Ottaviano e, soprattutto, non sa chi sia Barbaro che, però, a Tortora e alla sua celebre trasmissione televisiva è in qualche modo davvero legato.
Anni prima, infatti, quel criminale aveva inviato alla redazione di Portobello un pacco contenente dei suoi centrini da vendere nel mercatino catodico di una trasmissione, il cui successo è entrato persino nelle anguste celle del carcere di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba, dove è ospite da qualche tempo.
Quel pacco, tuttavia, al mercatino di Portobello semplicemente non arriva, scatenando l’ira funesta di Barbaro che si traduce in lettere di protesta e ventilate minacce di querela per appropriazione indebita di cui il destinatario è Enzo Tortora, ritenuto il solo responsabile di quella sparizione.
A poco serve la decisione dell’ufficio legale della RAI di chiudere la vicenda con un rimborso di ben 800 mila lire, tanti per dei centrini, pochi e offensivi per Barbaro e, soprattutto per Giovanni Pandico, altro “ospite” del carcere elbano, camorrista della prima ora che alimenta e non poco la collera di Barbaro, pregustando la più atroce delle vendette. Meglio noto come “o pazzo” Pandico è un pluriomicida, capace di uccidere due impiegati comunali, rei, solo, di aver tardato a rilasciargli un certificato. Descritto in una perizia come un soggetto schizoide e paranoico, Pandico che prova, per fortuna senza successo, a uccidere il padre, la madre e la compagna, sarà l’architrave su cui poggerà il castello di carte del caso Tortora.
Dall’accusa per appropriazione indebita per una manciata di centrini a quella di associazione a delinquere di stampo camorristico finalizzata al traffico di droga e armi, il passo è breve, come quello che divide il grottesco dal tragico, un incubo da una drammatica realtà.
La ricorrenza del 17, Strasburgo e la condanna
Nella vicenda giudiziaria di Enzo Tortora c’è un numero, il 17, che beffardamente ricorre, come se la pallina della roulette, lasciata scivolare da un algido croupier, non fosse in grado nella sua folle corsa di riconoscere sull’anello rossonero altro numero che quello.
È un altro 17 infatti, di gennaio, però, quello in cui Tortora, dopo 271 giorni di carcerazione preventiva, trascorsi prima a Regina Coeli e poi nel carcere di Bergamo, ottiene gli arresti domiciliari. Tra quei due 17, divisi da decine di giorni che odorano d’estate, si travestono d’autunno e gelano ai primi rigori invernali, c’è un diario squadernato su cui annotare date, fatti, emozioni, indicibile orrore.
Il processo a Tortora, dopo che il 17 luglio 1984, ancora un 17, il Tribunale di Napoli dispone il rinvio a giudizio per 640 degli 856 arrestati, tra cui, ovviamente, Tortora, ha inizio nel febbraio del 1985. Fin dalla prima udienza, in tutto saranno 67, la sensazione che più che in un’aula di giustizia ci si trovi dentro un romanzo di Franz Kafka, appare evidente, oltremodo palese.
Poi, sette mesi dopo, quell’assurdo processo fatalmente si conclude. Nella requisitoria finale, i magistrati della Procura definiscono Enzo Tortora «un cinico mercante di morte, un personaggio estremamente pericoloso tanto più perché coperto da una maschera di cortesia e savoir-faire». In un climax di invettive verso il giornalista che sembra non arrestarsi mai, uno dei pubblici ministeri accusa addirittura Tortora di essere stato eletto «con i voti della camorra.»
Tortora è basito per quella affermazione terribilmente grave e assolutamente gratuita ma ha ancora la forza per reagire e per esclamare che quell’accusa è «un’indecenza!».
Il pubblico ministero fa riferimento all’elezione di Tortora al Parlamento europeo, arrivata il 17 giugno 1984, sempre un 17, nelle liste dei radicali, a fronte di 414.514 preferenze di italiani che a differenza di tantissimi altri credono nell’innocenza del papà di Portobello.
La sentenza che condanna Enzo Tortora a ben dieci anni arriva il 17 settembre 1985, alle 17 in punto, ancora e sempre un 17, come se quel numero, già inviso ai pitagorici, non abbia davvero voglia di lasciare in pace il giornalista genovese.
La condanna è una mannaia che vibra sulla vita di un uomo già sconvolto da un’indagine che è sembrata fin dall’inizio zoppicante, priva di vero costrutto, basata su indizi risibili, prove inconsistenti, testimonianze rabberciate che, oltretutto, pervengono dilatate, se è vero che quella di Pandico arriva solo al quarto interrogatorio . Tra le “prove schiaccianti” c’è anche quella della famigerata agendina, per gli inquirenti la cartina tornasole della colpevolezza di Enzo Tortora; per chi crede nella giustizia la conferma di essere alla fiera del ridicolo.
I fatti sono a dir poco grotteschi ma, purtroppo, veri. Durante una perquisizione in casa di un camorrista viene rinvenuta un’agendina. Tra le paginette piuttosto consunte, affollate di numeri e cognomi, perlopiù scritti con grafie incerta, salta fuori quello di Tortora, a cui è associato un numero di telefono. Ecco la prova provata, il collegamento fra la camorra e il presentatore televisivo, la certezza che l’accusa di associazione a delinquere non è affatto campata in aria.
Peccato che una semplice perizia calligrafica, disposta solo tempo dopo, potrebbe facilmente dimostrare che quel cognome, in verità, sia Tortona e non Tortora. Ancor più peccato che quel numero non sia minimamente associabile a qualsiasi utenza telefonica di Enzo Tortora. Sarebbe bastato semplicemente che gli inquirenti componessero quel numero, come fece un giovane Vittorio Feltri che in quell’infuocata estate è uno degli inviati al processo per il Corriere della Sera.
Ecco come Gaia Tortora nel suo bellissimo “Testa alta, e avanti. In cerca di giustizia, storia della mia famiglia” ricorda quella scoperta fatta da Feltri:
«Una sera, mentre i colleghi erano intenti a giocare a carte, decise di fare due verifiche. Chiamò il famoso numero di telefono attribuito a mio padre, facendosi mandare a quel paese da un signore sconosciuto, che parlava dialetto calabrese.»
Ma Vittorio Feltri in quei giorni smonta anche un’altra granitica prova su cui poggia l’indagine dei pubblici ministeri Lucio Di Pietro e Felice Di Persia, la testimonianza del camorrista Melluso, detto “il bello” che agli inquirenti aveva raccontato con certezza adamantina di aver consegnato tempo addietro a Enzo Tortora una scatola di scarpe zeppa di droga. Peccato che il famigerato giorno della consegna Melluso si trovi nel carcere di Campobasso.
Ma da quel drammatico 17 giugno le accuse dei camorristi non si contano. Nessuno di quei “bravi uomini” rinuncia a esibirsi sul palcoscenico di un teatro che mette in scena la distruzione di un essere umano. La schiera degli accusatori cresce rapida, sull’onda anche delle agevolazioni previste dalla recente legge sui pentiti che, introdotta nel 1982, concede sconti di pena e varie facilitazioni a chi decida di collaborare. Tra gli accusatori di Tortora c’è anche Pasquale Barra, detto “o animale” autore di ben 67 omicidi, tra cui quello del boss milanese Francis Turatello, a cui, addirittura, divora persino le viscere.
Alla fine quella schiera di delatori raggiungerà il numero di undici, come i componenti di una squadra di calcio, tanto che Tortora soprannominerà quella falange di collaboratori, “la Nazionale del pentitismo”.
Il 10 dicembre 1985, nel corso di una seduta del Parlamento europeo a Strasburgo, Enzo Tortora annuncia in un perfetto francese le sue irrinunciabili dimissioni da parlamentare europeo. Lo fa perché non vuole avvalersi dello scudo dell’immunità politica. È innocente e lo proclamerà fino alla fine, anche a costo di tornare in galera.
Pochi giorni dopo, il 29 dicembre, Tortora si consegna alle forze dell’ordine. Lo fa in modo eclatante, davanti ai flash di decine di giornalisti accorsi in piazza del Duomo a Milano. Inizia una nuova fase di arresti domiciliari nel piccolo appartamento di via dei Piatti, dove il giornalista attenderà l’inizio di un nuovo corso giudiziario, quello del secondo grado, appello inevitabile per tentare di ottenere finalmente giustizia.
«Dunque, dove eravamo rimasti?» La fine di un incubo
Milano, Studio 2, venerdì 20 febbraio 1987. Le note della celebre sigla di Portobello scritta da Lino Patruno, quella che racconta di “un mercato pazzarello, dove trovi questo e quello, e c’è pure un pappagallo con il becco giallo, un tantino picchiatello” sfumano mentre Enzo Tortora entra in studio.
L’Enzo nazionale passa con passo sicuro in mezzo alla riproduzione del Big Bang di Londra e la mitica cabina del centralino che nel corso delle precedenti sei edizioni ha visto alternarsi, tra le altre, Paola Ferrari, Eleonora Brigliadori, Susanna Messaggio.
La tensione è palpabile sul volto del giornalista; difficile dimenticare un incubo durato oltre mille giorni, che solo la sentenza di assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto, pronunciata dalla Corte d’appello di Napoli il 15 settembre 1986 (confermata anche in Cassazione il successivo 13 giugno 1987), ha definitivamente interrotto. Gli occhi di Tortora si muovono rapidi, catturano istantanee di una standing ovation che gli rende quel tributo del tutto ignorato il 17 giugno 1983.
Quel lungo applauso, quelle grida di incitamento sembrano cancellare in un attimo gli insulti, gli sputi passati, le tante frettolose sentenze mediatiche, tra cui quella tranciante della giornalista Camilla Cederna che nell’immediatezza dei fatti, scrisse che «se l’hanno arrestato vuol dire che qualcosa l’ha fatta.»
Poi quando i battimani scemano e con lo loro si attutiscono i vari “bravo Enzo, sei unico, sei fantastico” Tortora rompe gli indugi ed esordisce pronunciando una frase che rimarrà negli annali della storia della televisione italiana, quel «dunque, dove eravamo rimasti?»
Tortora ha preso in prestito le parole che Luigi Einaudi, il futuro inquilino del Quirinale, scrisse per principiare l’articolo con cui ricominciava la collaborazione con il Corriere della Sera dopo la caduta del fascismo. Una frase d’impatto suggerita a Tortora da Anna, sua sorella, donna colta, ideatrice di programmi televisivi epici, oltre allo stesso Portobello anche il futuro Mi manda Raitre, una donna a cui Enzo professionalmente e umanamente deve moltissimo.
Poi, mentre quella citazione einaudiana si consegna definitivamente alla storia, Tortora prosegue con altre parole che rimarranno scolpite nella memoria:
Ma, purtroppo, Enzo Tortora non resisterà molto, anche perché come ha scritto sua figlia Gaia «lui era sì uscito dal carcere, ma il carcere non usciva da lui.» Il 18 maggio 1988 Enzo Tortora muore. A ucciderlo è un tumore ai polmoni che da mesi lo attanaglia, costringendolo ad abbandonare in anticipo il suo programma Giallo.
Tortora chiede di essere cremato. Dispone, altresì, che nell’urna sia messa anche una copia di un libro a cui è molto legato, manifesto letterario di quella vicenda assurda che l’ha visto suo malgrado protagonista.
Quel libro è Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni, forse il modo più elegante, più “tortoriano” possibile per sottolineare, attraverso la cultura, sua fedelissima compagna di viaggio, l’incredibile, disumano, infinito dramma che ha vissuto.
«Il sospetto e l’esasperazione, quando non sian frenati dalla ragione e dalla carità, hanno la trista virtù di far prender per colpevoli degli sventurati, sui più vani indizi e sulle più avventate affermazioni.»
(Alessandro Manzoni, Storia della Colonna infame)