Woodrow Wilson fu il primo presidente degli Stati Uniti a compiere un viaggio ufficiale in Italia. Lo fece nei primi giorni del gennaio 1919 e fu un autentico trionfo. Quello fra Wilson e gli italiani non fu un vero amore ma solo una rapida infatuazione che si tramutò ben presto in un odio cocente. Questa è la storia di quella visita, il racconto di quella fugace passione.
Woodrow Wilson, un presidente contestato
Roma 3 gennaio 1919. Woodrow Wilson è appena sbarcato nella Capitale ed è subito travolto dal calore della gente, che gli tributa un affetto sincero. La visita si inserisce in un lungo viaggio che il 28° presidente degli Stati Uniti ha intrapreso dal mese di dicembre in giro per l’Europa.
C’è una pace da costruire e Wilson lo vuole fare in modo rivoluzionario. Desidera, infatti, che la tragedia della Grande guerra che ha dilaniato l’Europa, lasciando sui campi di battaglia milioni di morti, sia l’ultima e spera che possa trasformarsi presto in un orribile ricordo.
In merito ai futuri accordi di pace Wilson ha un’idea piuttosto chiara ma che non collima con le intenzioni alleate, chiaramente emerse nel vagone ferroviario nella foresta di Compiègne, dove è stato imposto ai tedeschi un pesante armistizio.
Woodrow Wilson immagina una pace senza vinti né vincitori e principalmente un dopoguerra che rappresenti un punto di partenza per costruire relazioni diplomatiche granitiche, improntate sull’amicizia e non sul fragore delle armi.
L’inquilino della casa Bianca, ex rettore della prestigiosa università di Princeton, è un sognatore, un visionario ma ben presto si rende conto che non tutti la pensano allo stesso modo, specie negli Stati Uniti dove l’ostilità nei suoi confronti è crescente, nonostante sia in carica da ormai ben sei anni.
Se in Europa, in quel lembo del 1919, il democratico Woodrow Wilson è osannato, scortato dall’affetto sincero di milioni di europei che riconoscono in lui il messaggero di una nuova era in cui le guerre saranno solo una pallida reminiscenza, in patria il presidente americano non gode della stessa popolarità.
Sono lontani, infatti, i giorni in cui Woodrow Wilson vinceva le elezioni presidenziali. La partecipazione a una guerra che gli americani, ben saldi al principio di neutralità, non hanno mai pienamente condiviso ha scavato un solco netto, forse incolmabile.
Wilson alla vigilia della sua partenza per il Vecchio Continente è un politico sempre più isolato, sempre più nemo propheta in patria. A certificare la frattura fra lui e gli americani arriva inesorabile il verdetto delle elezioni di medio termine che, sul finire del 1918, consegna, dopo un decennio di egemonia democratica, entrambi i rami del Congresso ai repubblicani, un risultato che peserà e non poco sulla successiva mancata ratifica degli accordi parigini.
Il viaggio di Wilson in Italia fra osanna ed epigrafi
Il presidente americano arriva a Roma il 1° gennaio 1919, prima tappa del tour italiano. Ad accoglierlo ci sono migliaia di romani, gente comune che vuole vedere da vicino quello che appare a tutti come il profeta della pace, il difensore delle nazioni.
All’entusiasmo popolare, sottolineato dallo sventolio di cappelli e da grida di giubilo, si associa la pelosa attenzione dei politici nostrani, certi che Wilson, con il suo prestigio, farà la differenza alla Conferenza di Parigi, tramutando le aspirazioni territoriali italiane in entusiastiche realtà.
Ma la realtà sarà ben diversa da quella auspicata in quei primi giorni di gennaio.
Wilson, nel frattempo, incontra a Roma re Vittorio Emanuele, con il quale sfila a bordo di una carrozza scoperta fra ali di gente entusiasta che si ammassa per vedere il profilo ossuto del presidente americano, quel volto magro, definito dal naso aquilino su cui si poggiano dei rassicuranti occhialetti.
Le fotografie dell’epoca ritraggono un Wilson rilassato, perfettamente a suo agio anche quando si affaccia insieme al re dal balcone del Quirinale, ancora una volta per salutare folle entusiastiche.
Nel corso del soggiorno romano Wilson fa visita anche a Benedetto XV, il pontefice che anni prima aveva tentato di porre fine a quella inutile strage facendo ricorso alla sua autorità morale. In quella circostanza, è tale la moltitudine di persone che le forze dell’ordine sono costrette a disperdere la folla ammassata per vederlo uscire dal Vaticano.
Dopo Roma è la volta di Genova, Milano, Torino, le altre città toccate da Wilson nel viaggio italiano, ma il refrain è invariato e l’entusiasmo popolare non viene mai meno.
A Genova Wilson, che pretende di onorare due genovesi illustri come Giuseppe Mazzini e Cristoforo Colombo, riceve una laurea honoris causa; mentre a Torino, dove l’affetto popolare è egualmente smisurato, il presidente americano, che si spertica in elogi per un ottimo Grignolino servitogli dalla cantina Enrico Serafino di Canale, viene addirittura omaggiato con una lunga epigrafe in latino, composta dall’esimio latinista Ettore Stampini. Anche a Milano, dove arriva in treno, direttamente da Genova, poco prima del tre del pomeriggio del 5 gennaio, Wilson è salutato come un’autentica star, specie quando nel corso del suo discorso rivolto alle «masse silenti» promette un mondo «più vivibile e sicuro», basato sulla pace e sul lavoro.
Alla base di quel genuino entusiasmo c’è il desiderio di vedere quello che viene ritenuto non solo uno degli uomini politici più potenti al mondo, ma anche il leader di un paese lontano ma che affascina e non poco. Ma più di tutto gli italiani vogliono omaggiare colui che viene ritenuto il simbolo di un nuovo modo di fare politica, ben diversa da quella vecchia e superata dei politici nostrani.
Wilson fra gli osanna di Mussolini e lo scetticismo dei futuristi
Fra i sostenitori della prima ora di Woodrow Wilson, in quel suo viaggio italiano, c’è sicuramente Benito Mussolini. L’ex direttore dell’Avanti, che a seguito della sua posizione interventista era stato cacciato nell’autunno del 1914 dal partito socialista, dalle colonne del suo “Il Popolo d’Italia”, il 5 gennaio 1919, saluta il presidente americano come l’araldo della pace:
Non dissimile è un articolo comparso il medesimo giorno sull’Illustrazione italiana:
Alla base dell’entusiasmo degli organi di stampa che intonano veri e propri peana per Wilson, ci sono i famosi Quattordici Punti, ovvero il discorso pronunciato dal presidente americano al Congresso americano l’8 gennaio 1918, nell’ultimo anno del conflitto.
In quella circostanza il presidente americano definisce il suo concetto di pace, traducendo, come ha scritto lo storico Giovanni Bernardini nel suo Parigi 1919, «su scala globale lo spirito riformatore e liberale dell’età progressista di cui era stato protagonista, con tutti i suoi meriti e le sue contraddizioni.»
Wilson nei suoi Quattordici Punti invoca la libertà assoluta di navigazione nei mari, la fine della diplomazia segreta, la soppressione di barriere economiche, l’attuazione di un piano complessivo di disarmo generale, l’evacuazione e l’indipendenza del Belgio, la restituzione dei territori dell’Alsazia e della Lorena alla Francia, lo sviluppo autonomo dei popoli dell’ex impero austro-ungarico e di quelli dell’ex impero ottomano e, soprattutto, la nascita di un organismo internazionale, la Società delle Nazioni, che promuova e garantisca la pace a livello mondiale.
Ma al wilsonismo non aderiscono tutti. I futuristi, ad esempio, che oltre che un movimento culturale sono da alcuni mesi anche un partito politico, guardano con sospetto a quel presidente americano che ai loro occhi appare come «un elegante professore di diritto che ha trovato non in trincea ma nei suoi vecchi libri la formula pacificatrice della guerra.»
Una posizione per certi aspetti prevedibile per un movimento che da sempre inneggia alla guerra, vista, addirittura, come la sola igiene del mondo.
Futuristi a parte, in quei primi giorni di gennaio, quando la Conferenza di Parigi non è ancora iniziata, il wilsonismo, come scritto efficacemente da Renzo De Felice, sembra «a tanta parte dell’opinione pubblica il toccasana dei problemi europei, una dottrina sociale, un fatto nuovo e positivo.»
Ma sarà un entusiasmo di breve durata, un autentico fuoco di paglia.
A Parigi, infatti, già dalle prime sessioni emergono con forza gli evidenti contrasti tra i principi generali, strenuamente difesi da Wilson e il pragmatismo dei vincitori, poco propensi a ridisegnare l’Europa secondo i desiderata progressisti e di stampo cristiano del leader americano.
La fine di un amore, il “tradimento” di Wilson
Alla base del pensiero wilsoniano, c’è la ferma volontà di creare delle solide basi per evitare in futuro il ripetersi di conflitti come quello appena conclusosi ma come lui non la pensano i leader dei paesi vincitori che, invece, desiderano accaparrarsi, il prima possibile, i bottini territoriali, lasciti sostanziosi da ereditare dalla dissoluzione dei grandi imperi, a partire da quello austroungarico.
Proprio la spartizione di alcuni domini asburgici sarà la pietra tombale sulla fugace passione fra Wilson e gli italiani che volteranno le spalle al presidente americano, passato, nel breve tempo di un sospiro, da amico a nemico, da alleato a infame traditore.
Il casus belli è la questione di Fiume, città che l’Italia vuole annettere, facendo anche affidamento al principio dell’autodeterminazione dei popoli, tanto caro a Wilson. D’altra parte a Fiume, città cosmopolita per antonomasia, la presenza italiana è decisamente maggioritaria, rappresentando oltre il 60% della totalità dell’intera popolazione.
Ma questo dato, pur incontestabile, non sembra scardinare il granitico fronte parigino, risolutamente contrario alla richiesta di annessione italiana. Per gli inglesi, francesi e americani le rivendicazioni italiane su Fiume non hanno ragione di esistere, anche perché la città dalmata non fa parte di quel bottino di guerra promesso all’Italia in occasione degli accordi stipulati in gran segreto a Londra nell’aprile del ’14, un patto, oltretutto, che agli occhi dei più, specie all’indomani della strategica pubblicazione operata dal nuovo governo russo, guidato da Lenin, appare decisamente superato, non più credibile.
Tra i principali oppositori alla pretesa territoriale italiana c’è il presidente francese Clemenceau. L’anziano politico transalpino, che in patria è stato ribattezzato per la sua tenacia “Il Tigre”, protagonista assoluto della conferenza parigina, stronca le velleità italiane con ficcante ironia: «Fiume? E perché no la luna.»
Contrario è anche lo statunitense Wilson che il 13 aprile 1919, quando il dossier italiano viene ufficialmente dibattuto, si schiera contro la possibilità che l’ex porto asburgico diventi italiano, suggerendo, al contrario, la soluzione di uno Stato libero di Fiume, proposta che a suo avviso permetterebbe di risolvere quella vexata questio, vista anche la rivendicazione oltre che dall’Italia anche dal neonato regno jugoslavo.
La proposta di Wilson è però un macigno sulle aspirazioni italiane. La speranza di trovare nel presidente americano il più affidabile alleato è amaramente naufragata. La linea italiana su Fiume, tuttavia, non cambia e viene ribadita dalla dichiarazione che il presidente del consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, legge nel corso della conferenza: «Fiume e la Dalmazia sono italiane.»
Parole nette che rinfocolano lo scontro fra l’Italia e il resto degli ex alleati, un dissidio opportunamente amplificato dai media nazionali che fanno loro la dannunziana “vittoria mutilata”.
Wilson prova a ricucire quello strappo diplomatico, consapevole di coma possa bloccare i lavori parigini. Pensa, allora, di rivolgersi direttamente al popolo italiano per spiegare le sue ragioni circa l’opposizione all’italianità di Fiume.
Il 23 aprile scrive una lettera, pubblicata da un giornale francese, indirizzata agli italiani, un atto decisamente inconsueto che rompe l’ingessato protocollo diplomatico e più di qualcuno giudica insolito, frutto della anche megalomania del presidente.
Nella lettera il leader americano ribadisce la necessità che Fiume divenga il porto commerciale di quei nuovi stati, come l’Ungheria, la Jugoslavia o la Boemia, nati dalla conferenza di pace.
Le argomentazioni di Wilson non ottengono l’effetto sperato, anzi hanno l’effetto di alienare definitivamente le simpatie italiane verso Wilson, ormai visto da tutti come il primo nemico a Parigi.
Mentre la delegazione italiana, formata oltre che da Vittorio Emanuele Orlando anche dal ministro degli esteri Sonnino, lascia Parigi, sbattendo sonoramente la porta, salvo, poi, ritornare con la coda fra le gambe, in Italia monta la protesta irredentista che si polarizza intorno alla figura di Gabriele D’Annunzio che come nel maggio del 1914 torna ad animare le piazze italiane.
Il Vate è il principale avversario di Wilson, definito un essere “odioso”, un politico di cui non ci si deve fidare. Sono lontani i giorni in cui il presidente americano veniva acclamato per le vie italiane. Ora, dai più, anche grazie alla grancassa mediatica, Woodrow Wilson è visto come un traditore e sul carro dei detrattori salgono in fretta tutti, compreso quel Mussolini che, non più tardi del 5 gennaio, lo aveva osannato sulle pagine del suo giornale e che adesso, attacca, scrivendo che Wilson ha umiliato l’Italia, dopo aver scroccato i plausi delle moltitudini.
La parabola discendente di Wilson prosegue anche in patria dove deve amaramente accettare il voto contrario del Congresso americano sulla risoluzione che impegnava gli Stati Uniti a entrare nella Società delle Nazioni, la creatura a cui il presidente americano teneva di più.
Quella profonda delusione sarà solo in parte mitigata dall’assegnazione del Nobel per la Pace. Il 2 ottobre del 1919 Wilson viene colto da un secondo attacco apoplettico che lo rende praticamente inabile.
Muore il 3 febbraio 1924 non assistendo, per sua fortuna, al totale fallimento della Società delle Nazioni e all’ascesa di quei regimi dittatoriali che di lì a poco condurranno una guerra ancora più orribile di quella che Wilson, ingenuamente, aveva sperato fosse davvero l’ultima.
Sic transit gloria mundi!
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[…] Non era contento il poeta abruzzese, avvertiva nell’aria la percezione che i prossimi accordi di pace avrebbero potuto danneggiare l’Italia, nonostante il suo paese di lì a poco si sarebbe seduto al tavolo dei vincitori. Il 24 ottobre 1918, lo stesso giorno in cui iniziava la battaglia di Vittorio Veneto, D’Annunzio pubblicava un pezzo sul Corriere della sera, con il quale da tempo collaborava, dall’icastico titolo: “Vittoria nostra, non sarai mutilata”. Con il suo stile inimitabile, il Vate sproloquiava contro l’imminente fine del conflitto, contro il Patto di Londra, i cui contenuti dopo la caduta del regime zarista e l’avvento del comunismo in Russia erano stati resi pubblici e principalmente contro il presidente americano Woodrow Wilson. […]